“Confessioni di un giovane Inglese” – George Moore


Voto: 5 stelle / 5

Taluni scrittori raggiungono il loro acme quando riescono a cristallizzare, in forme esteticamente apprezzabili, lo spirito dell’epoca in cui sono vissuti. Impareggiabile testimone del suo tempo è stato l’irlandese George Moore (1852 – 1933), narratore, critico, poeta e drammaturgo, che sul finire dell’Ottocento pubblicò – dapprima in francese (1886) e poco dopo in inglese (1888) – un intenso libro di memorie, “Confessioni di un giovane inglese” (stampato nel 2018 da Lindau e tradotto dalla versione francese da Elena Giovanelli Valle).

Trama di Confessioni di un giovane inglese

Fin dalle prime pagine di “Confessioni di un giovane Inglese” l’autore si rivela uomo dal temperamento volubile e indolente, incline a morbose fantasie e febbrili passioni. All’età di sedici anni Moore viene espulso dall’odiato collegio cattolico. Tornato a casa, trascorre le sue giornate frequentando le scuderie e scommettendo alle corse equestri. Quando suo padre viene eletto membro del Parlamento, George e la sua famiglia si trasferiscono a Londra. Il giovane alloggia presso un military tutor in Euston Road, quantunque la disciplina militare gli faccia orrore. L’incontro fortuito col pittore Jim Browne è all’origine della sua vocazione artistica. Benché consapevole delle sue mediocri attitudini, Moore seguita a dipingere e riesce a farsi ammettere alla scuola del Kensington Museum. L’inopinato decesso del padre lo restituisce a se stesso e gli consente di vagheggiare un avvenire di auree dissipazioni.

«Mi piaceva spendere, in profumi e bagatelle per la toeletta, tanto quanto sarebbe stato sufficiente a mantenere nell’agio la famiglia di un poveraccio per dieci mesi; sorridevo alla fashionable luce del sole nel parco, alle cavalcate polverose; mi piaceva scandalizzare gli amici salutando delle cocotte; prima di ogni altra cosa veniva la vita dei teatri, quella vita alla luce del gas, i vestiti sontuosi che sfioravano i muri imbiancati a calce, quella vita burlesca, il ron-ron di polke e valzer qualunque mi interessava oltre ogni legittimo limite, tanto mi appariva curiosa e strana. Vivevo in casa mia, ma tutte le sere andavo a cena in un ristorante alla moda. Alle otto e mezza ero a teatro. […] Mia madre soffriva, aspettandosi la rovina. Io mi curavo di non nascondere nulla; mi vantavo delle mie dissipatezze. Ma non c’era nulla da dover temere; per natura ero dotato di un marcato istinto di conservazione».

A onor del vero, bisogna riconoscere che l’infatuazione artistica di George è autentica; sfortunatamente per lui si tratta di una passione non ricambiata. Dimentico dell’adagio evangelico – “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti” (Mt 22. 14) – e smanioso di consacrarsi alla pittura, nel 1873 Moore si trasferisce a Parigi.
Il giovane dandy s’inserisce agevolmente nel milieu artistico-letterario della Ville Lumière; frequenta pittori e scrittori (tra gli altri, l’anziano drammaturgo Eugène Labiche, depositario di una vasta e sapida aneddotica). Dopo l’iniziale avversione, Moore diviene strenuo paladino dell’arte impressionista, allora bistrattata dalla critica ufficiale. Ed è proprio un esponente della nuova estetica, Édouard Manet, a eseguire, nel 1879, due celebri ritratti dello scrittore irlandese, oggi conservati al Metropolitan Museum of Art di New York (altro ritrattista insigne del Moore fu il pittore parigino Jacques-Émile Blanche, dedicatario di queste memorie). L’apprendistato artistico si rivela tuttavia più oneroso del previsto. I progressi di Moore sono impercettibili. Dopo un anno d’infruttuose fatiche, l’irlandese abbandona definitivamente la pittura e passa alla scrittura. La sua produzione letteraria sarà tanto feconda quanto versatile. Rientrato definitivamente a Londra nel 1911, Moore continuerà a subire la magnetica influenza di Parigi e della Francia, come si evince dai temi e dallo stile dei suoi libri.

Recensione

Le “Confessioni di un giovane Inglese” costituiscono forse l’opus magnum di questo scrittore. Come definirle? Sarebbe riduttivo valutarle come il parto creativo di un ingegno fervido ed eclettico. Il libro di Moore è ben più di questo: è anzitutto il vivido affresco di due complesse metropoli come Londra e Parigi sul finire del secolo decimonono. Moore ci consegna inoltre una sua personalissima rassegna letteraria. I giudizi critici – talora inusitati o irriverenti – su Hugo, Gautier, Balzac, Goncourt, Huysmans, Zola, James, Hardy, Stevenson, Pater e tanti altri si distinguono per l’indubbia finezza esegetica e si configurano, a mio giudizio, tra le pagine migliori del libro (assieme all’esilarante capitolo in cui l’autore “duella” con la propria coscienza allo scoccare della mezzanotte). Checché ne pensasse l’esimio Praz, che giudicò il libro un mero collage di altri testi, queste confessioni si offrono al lettore odierno come un documento umano e letterario tutt’altro che effimero, da meditare.

Gustav Brod

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