“E’ ancora possibile la poesia” – Il discorso di Eugenio Montale

La poesia e la letteratura possono sopravvivere nella nostra complessa società globalizzata e informatizzata? Ha ancora un senso impiegare il nostro tempo nella lettura di versi che richiedono attenzione e concentrazione per essere interiorizzati, mentre la realtà intorno a noi corre veloce e ci chiede di fare altrettanto?


A queste domande tenta di dare una risposta Eugenio Montale, nel memorabile discorso tenuto presso l’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione della consegna del Premio Nobel per la Letteratura. Le parole pronunciate da Montale rappresentano un’importante testimonianza del valore attribuito da sempre all’arte poetica come espressione pura e profonda dell’animo umano. Di lui abbiamo commentato “Ossi di seppia“.

La mercificazione dell’inutile

Il discorso si apre con una riflessione sulla “mercificazione dell’inutile”.

La società negli anni Settanta comincia a rivelarsi frenetica, pronta a pianificare tutto, come se si trattasse di un progetto industriale.

Le imprese necessitano di un preciso sistema organizzativo e di una gestione imprenditoriale impeccabile, ma la poesia è svincolata da questo meccanismo. Non essendo “produttiva”, non porta a vantaggi materiali che possano essere concretizzati e quantificati, la poesia viaggi su binari diversi, agisce sulla dimensione interiore dell’uomo e non può essere soggetta a leggi fisiche o matematiche. Montale, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua formazione e delle sue numerose attività, dichiara umilmente che la letteratura ha segnato la sua vita, la sua produzione non si è basata su beni materiali, ma sulla poesia, “un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà.”

Con una sottile vena polemica il poeta aggiunge che c’è chi ritiene scarsa la sua produzione poetica, forse supponendo che lo scrittore sia un produttore di “mercanzie”, senza riflettere sul fatto che non è possibile paragonare la poesia ad una “merce”, quantificare il numero di versi prodotti e giudicare un autore in base a quanto produce.

Non è possibile commercializzare l’arte e renderla semplicemente un oggetto, privandola così di una propria identità.
La poesia richiede solitudine, attesa, riflessione. E’ vero, continua Montale, esiste una poesia di facile consumo, scritta per essere urlata nelle piazze davanti ad una folla entusiasta, amplificata dai mezzi di comunicazione di massa, ma destinata a morire appena espressa. D’altro canto esiste, invece, una poesia più discreta, che disdegna ogni “esibizionismo isterico”, senza un destinatario preciso, che vive di ispirazione e “sorge quasi per miracolo”, che richiede silenzio e raccoglimento, in una dimensione in cui possano echeggiare solo le parole con la loro forza evocativa.

La poesia e il suo destino

“Potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa?”, si chiede Eugenio Montale proseguendo il suo discorso, e la sua risposta non può che essere affermativa.

“Non c’è morte possibile per la poesia”.

Ma il poeta va oltre e si domanda quale possa essere dunque la sorte riservata all’arte poetica.

“La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto.”

La produzione poetica, il manufatto in sé è soggetto al gusto, alla moda ed anche alle grandi calamità, basti pensare all’incendio della Biblioteca di Alessandria che distrusse buona parte della letteratura greca antica. Diversa è la questione se ci riferiamo alla potenza spirituale di un testo poetico, al suo rifarsi attuale, dischiudendosi a nuove interpretazioni. In questo senso i confini della poesia si dilatano: c’è poesia in grandi opere narrative, c’è poesia in molte opere teatrali. La realtà è che la poesia è strettamente legata al nostro essere umani, alla nostra condizione, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, amanti del bello, alla ricerca del pathos autentico, affascinati da ciò che gli antichi chiamavano “sublime”.
Ecco perché abbiamo bisogno dell’”inutile”, di ciò che è svincolato dalle leggi del profitto. Diventa necessario per sopravvivere, per aggrapparci ad una fragile emozione e per affrontare le tempeste della vita, per trovare consolazione ed elevarci in spirito e intelletto.
Montale ci chiede di rimanere con i piedi per terra, ma puntando lo sguardo in alto, consapevoli che, in fondo,

“è inutile chiedersi quale sarà il destino delle arti. E’ come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione.”

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