Il buio

Era il 31 dicembre e insomma, anche se impossibilitati ad uscire, aspettavamo il panettone. Non era previsto, ahimè, che di panettoni non sono neanche ghiotto. Fuori dal vetro c’era l’oscura libertà della notte.

Anoressiche ischeletrite, piromani recidivi, detenuti con la scorta; la Ilde, dolcissima. Stuprata in gioventù, infanticida. Sembrava di essere al “Grande fratello”. Una congerie di dolore. Dolore puro, svestito e orgoglioso e duro e affilato, ma anche bello. Tutto era vero, terribilmente vero. Mai incontrata tanta umanità tutta assieme, senza maschere. Tante liti, poi subito la pace.

Fumo, fumo, fumo.

La notte passata ad ascoltare le confessioni, ad assorbire i lutti altrui. Sempre in silenzio, poi uno sguardo di comprensione che accarezzasse le cicatrici.

Tornato a casa, mio padre, appena aperta la porta mi accolse con le braccia spalancate. Non lo dimenticherò mai. Aveva l’Alzheimer e dunque non era consapevole. L’assenza l’aveva notata però e poi, le grida straziate della mamma, lungo i giorni di separazione.

Il buio resta l’unico riparo di chi vive nella nudità di sé.

Prima della morte del babbo, nel giorno di San Valentino, sono riuscito a baciarlo nella bocca e, mentendogli a sussurargli che un drappello di angeli sarebbe venuto a prenderlo, assieme alla Vergine, per portarlo con loro, in luoghi in cui non esisteva più dolore e sofferenza. Poco dopo è morto.

Per necessità pratiche ho dovuto rimuovere il lutto, posticiparlo. Mia madre non è riuscita, lei l’ha bevuto tutto e si è avvelenata in poco tempo. A distanza di pochi mesi ho un’altra larva in casa, più travagliata e ferita. So che mi lascerà solo entro breve. Solo lo sono sempre stato, pur non desiderandolo mai di esserlo. E’ andata così, semplicemente. Ma, so, che stavolta la solitudine sarà assoluta e che, non avrò più giustificazioni.

Il babbo, nella sua follia, era di compagnia in casa. La mamma era forte allora, doveva combattere per lui. Per me non combatte. S’è lasciata andare. Mi ha tradito, glielo rinfaccio. È stato tutto così veloce, contro ogni pessimistica aspettativa. La conoscete voi la solitudine? Quella vera?

Negli ultimi mesi di vita pronunciava costantemente questa frase, rubata alla pubblicità: “Com’è bello mordere la vita!”. La vita eh, la vita che non ha mai vissuto, poveretto, quella stessa che ha negato, lui e il destino, chissà, anche a me. Non abbiamo mai morso babbo: dolce, innocuo uomo. Sei stato inadeguato, inadatto al vivere, così come lo sono io, che da te ho imparato. Il mondo non lo abbiamo mai calpestato noi due, non abbiamo mosso polvere mentre ci camminavamo sopra.

Che resta ormai delle speranze perdute? Di quelle grandi dell’adolescenza, di quelle sempre più negoziate man mano che il tempo scorreva, accatastandosi?

Rimane l’attesa, l’unica compagna di tutta una vita.

Ricordo cieli stellati, d’Estate. Il buio traforato dalle luci lontane. La brezza. I tristi anni trascorsi, in cui il terrore era ancora un’ombra, benché già proiettata addosso. Mi piaceva stancarmi il sabato sera. Guardavo ballare, la gente attorno. Null’altro. Tornavo a casa appesantito di vita rubacchiata e questo mi permetteva un sonno sereno. A casa, poi, c’eri tu, già sveglio, che mi preparavi il caffellatte. Sempre puntuale.

Gino Pelliccia.

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