“Il peso della farfalla” – Erri De Luca


Voto: 4 stelle / 5

“Il peso della farfalla” è un romanzo breve dello scrittore napoletano Erri De Luca, pubblicato da Feltrinelli la prima volta nel 2015. Si divide in due parti: uno che dà titolo e corpo al romanzo (52 pagine) e un altro più introspettivo e breve, quasi un’appendice (8 pagine).

Trama de Il peso della farfalla

La prima parte, perno del libro, è una favola moderna. Racconta di due re, anche se uno di questi porta il titolo impropriamente: Il re dei camosci, tale perché guida il branco da molti anni con forza e autorevolezza e, ancora, il re dei camosci, ladro di bestiame ribattezzato così dagli altri uomini perché è un cacciatore abilissimo. I due re si incontrano la prima volta il giorno in cui l’uomo uccide la madre dell’animale; da quel momento percorreranno due sentieri paralleli, che altro non sono se non le loro vite, e li vedranno sovrapporsi nuovamente solo in un unico giorno: l’ultimo.

Il peso della farfalla è, oltre al titolo, una metafora fondamentale che abbraccia tutto il racconto: ha una funzione chiave, farci riconoscere o anche solo intuire il finale: ogni volta che il re dei camosci scruta lontano e ripensa alla sua vita, una farfalla bianca si posa sul suo corno sinistro.

La stessa farfalla che gira intorno al cacciatore senza tuttavia mai posarsi su di lui, troppo distratto per guardarsi dentro; solo nel suo ultimo giorno, la farfalla bianca scandirà con le ali l’apri e chiudi delle sue palpebre ormai allo stremo, solo nel momento del suo ultimo respiro De Luca rivela la metafora: cosa scorre leggera, leggera intorno a noi, svelando il suo peso solo quando ci rendiamo conto che è giunto il momento di lasciarla andare?
Siamo in pieno novembre, i camosci si preparano ad affrontare il capo branco, il re, ormai vecchio e lui si prepara a fronteggiarli, consapevole che ormai non ha più possibilità di vittoria.

Siamo nella stagione della caccia, alle porte dell’inverno. L’uomo inizia a scoprire le debolezze che porta a galla la vecchiaia, senza tuttavia rivelarsi lungimirante come l’animale.

Due re. Due solitudini.

“Il peso della farfalla” racconta di una favola moderna, ma qual è la morale?

Forse il grande merito di De Luca è affrontare un così colorato caleidoscopio di emozioni che trovare un’unica chiave di lettura risulta impossibile: può essere letto come un libro sulla solitudine, che lega i due protagonisti e li separa dagli altri. O ancora, si può riflettere sul concetto di tempo, sulla differenza tra animali e imposizioni sociali degli uomini, perché ‘’le bestie sanno il tempo in tempo, quando serve saperlo. Pensarci prima è rovina di uomini e non prepara alla prontezza’’. Magari un libro sulla fragilità, ma forse si possono ritrovare tutte queste componenti nella meravigliosa grazia con cui De Luca mette insieme un dramma che non è umano, né animale, è universale: la resa.

Parliamo di due re che in solitudine e analizzando il loro percorso si preparano all’ultimo scontro, alla resa dei conti, al ripristino di ogni equilibrio.
Il re dei camosci del regno animale è un esemplare di rara bellezza, fin troppo grosso rispetto alla stazza media della sua specie, tuttavia mai privo di eleganza. E’ diventato capo branco in un giorno di novembre e da allora vive la sua supremazia in solitudine, avvicinandosi al branco raramente. Ha allevato e ha battuto molti figli, mantenendo il controllo per molti anni, ma conosce il suo tempo e lo valuta con la saggezza tipica degli animali. Nella sua vita ha aspettato solo una cosa: rivedere, per l’ultimo scontro, il cacciatore che ha ucciso sua madre. Sa bene che anche l’altro silenziosamente e senza fretta lo sta aspettando.

Il re dei camosci, che in realtà si riconosce meglio nei panni di ladro di bestiame, guarda alla montagna e anche agli animali con un enorme rispetto, anche nell’uccidere. La sua devozione al Dio Creatore sorprende e confonde, vista la sua ‘’professione’’; ma diventa chiaro, con lo scorrere delle pagine, che ha affidato la sua vita ad un unico percorso, l’unico possibile per lui e ha tagliato fuori tutto il resto. Non conosce la società e le donne, non gli interessano ormai da molto tempo, ma conosce la montagna con infallibile certezza e la montagna conosce lui; è la sua casa, la sua vita e per lui è normale che sarà la sua fine. Si prepara ad arrendersi ad essa cercando di compiere un’ultima impresa: uccidere il re dei camosci, quello vero.

Non conosciamo l’interiorità dei personaggi e non viviamo i loro drammi, perché De Luca sceglie di non creare ‘molto rumore per nulla’. I due protagonisti vivono la loro esistenza con una pacatezza e una calma che non è rassegnazione, è consapevolezza. Per questo motivo, sarebbe illogico e non rilevante chiedersi se siano due personaggi statici o dinamici all’interno della narrazione: il camoscio e il cacciatore sanno bene di essere solo due comparse nel mondo, due ombre di montagna.

Un’unica resa

Molto accomuna queste due figure, non è un caso che le loro strade siano destinate a sovrapporsi. La loro insuperabile differenza non sta nell’essere animale e umano, ma Re e Uomo.

Il re animale è elegante, potente, leader temuto e ammirato perché mai nessun regno è durato quanto il suo. Ha ucciso molti pretendenti prima di arrivare al suo ultimo novembre. Presagisce la sua fine perché nota una perdita di agilità che tuttavia, non sa per quanto tempo ancora, non gli costa nessun fallo: le sue gambe cadono dritte e flessibili, i suoi salti sono precisi e il suo occhio scruta lontano.

Nella sua presa di coscienza, decide di ritirarsi per morire imbattuto. Schivo per natura, da quando l’uomo ha ucciso la madre è stato costretto a crescere da solo e da solo vuole morire, mischiandosi in ultimo e per sempre con quei monti che sono stati la sua casa e il suo regno.

Il re umano, il ladro, il cacciatore è invece un solitario senza altra possibilità di scelta: non conosce legami umani e non se ne preoccupa. E’ quasi una leggenda a valle, uno spirito che gli altri uomini non riescono a figurare come umano. La sua figura ha dell’incredibile e nessuno pare percepirlo come parte della comunità. Solo quando una giornalista si interessa alla sua storia egli si chiede cosa abbia da raccontare: non conosce gli uomini e soprattutto le donne, ha scelto una vita in solitaria e nulla ha da dare, nulla ha da dire. Il contatto con lei, invero, gli provoca sensazioni che credeva di aver dimenticato.

E’ curioso come anch’gli si senta deumanizzato, ormai ombra e parte della montagna, un luogo ostile agli uomini e che egli invece sente come suo e nel quale si prepara a congedarsi dalla sua umana esistenza.
Due solitudini diverse e complementari: non a caso, seguendo il volo della farfalla bianca, si cercheranno per putta la vita.

Recensione

De Luca ci regala una favola densa e brillante. Un’eleganza che risiede per intero nel giusto dosaggio delle parole, con una padronanza linguistica che nulla ha da invidiare al labor limae oraziano.
Il racconto principale è in terza persona e il narratore sembra spettatore consapevole dell’ambiente, dei fatti, dei personaggi. Conosce i loro pensieri e i loro percorsi quasi come fosse naturale per lui raccontarli. Più che narratore onnisciente vien quasi da dire narratore spettatore e creatore insieme, che non nasconde la sua mano e, tuttavia, neppure la forza.

La bellezza del testo si rivela nel continuo parallelo narrativo tra i due personaggi rispecchiato in quello stilistico delle voci alternate. De Luca, con immensa grazia, scrive un resoconto asciutto e pacato non della solitudine, ma della resa: la consapevolezza che si è tutti di passaggio, grandi o piccole ombre di un mondo che esiste e continuerà a farlo anche dopo di noi. Protagonisti di un racconto sull’infinita dignità della resa, camoscio e cacciatore non si domandano il perché della fine, ma la accettano e le vanno incontro con rispetto.

Non è un caso che l’ultimo incontro tra i due Re sia un riconoscersi e chinare il capo l’uno all’altro. E non è un caso che muoiano entrambi con una naturalezza che solo la penna di De Luca riesce a regalare anche ai drammi. Ecco, la qualità più sorprendente dello scrittore, a cui – per fortuna- non mi abituerò mai, è spogliare lo scibile e percepibile umano dal dolore e dal buio, per cospargere la vita, la morte e il passaggio attraverso questi due momenti di naturalezza e dignità.

E’ un testo descrittivo, seppur essenziale. Senza caricare di pathos espressivo ciò che si esprime da sé l’autore si limita a mostrarlo, descrivendo con precisione anche i più sfuggenti dettagli: colpiscono le descrizioni dei boschi e dei dirupi di montagna, dei fiocchi di neve che cadono e sembra quasi di percepirli al tatto, i salti del re camoscio da una roccia all’altra, le valutazioni, la mira che precede il colpo mai incerto del re umano. I dettagli scelti per rendere vive le immagini fanno appello ad ogni sfera sensoriale.

Con delicatezza e attenzione svela, inoltre, le fragilità di un animo umano che non cerca di combattere la sua fine, né il tempo che scorre. De Luca scrive come un animo risolto.
Il peso della farfalla si rivela un libro sulla resa e su cosa voglia dire arrendersi: non rassegnarsi alla fine, ma abbracciarla; grati di aver preso, consapevoli di dover restituire.

Silvia Rodinò

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