La macchinina

La lama obliqua di luce che entrava dalla finestra tagliava la stanzetta in due e finiva lì, sulla fronte del bambino addormentato. Pronta, Gemma accostò l’imposta: in quel momento nulla era più prezioso del  sonno di suo figlio Giovanni.

 

  “Fai la nanna frugolino

che di pane ce n’è pochino..”

 

Una  ciocca di capelli non riusciva a nascondere completamente il segno sulla tempia; non era stato possibile evitarglielo  quando, con l’irruenza senza calcoli dei suoi cinque anni, si era messo in mezzo tra lui, l’uomo nero, e sua madre.

La storia di Gemma, in fondo, non era molto diversa da quella di tante altre. Aveva capito subito  che  non c’era niente  da condividere, e meno che mai un figlio, con  quel padre mancato che nutriva ben  altri sogni da realizzare lontano da lei.  Aveva deciso: a  tutte le difficoltà, previste o impreviste, avrebbe pensato lei, anche facendo i salti mortali per tenersi i  lavori, sempre a tempo determinato ma che, per fortuna, non erano mancati.

Giovanni cresceva bene, con un equilibrio inaspettato per un bambino così piccolo, pur se risultava difficile soddisfare tutti i suoi desideri.

  • Mamma, ecco, eccola la macchinina che avevo visto nella pubblicità: è quella , lì nella vetrina; proprio quella voglio io, mamma!
    Uno sguardo fuggevole alla carrozzeria ed uno invece, indagatore e persistente, sul cartellino del prezzo:
  • Amore, no, quella la mamma non te la può comprare Non adesso.

 

Se il bambino mostrava qualche segno di disappunto, tutto spariva quando la sera se lo teneva  stretto, prima di addormentarlo:

  • ”Fai la nanna frugolino

che di pane ce n’è pochino

ne’ di crudo ne’ di cotto

ne’ di macinato troppo..”

 

Il giorno del compleanno di Gemma era arrivato quel biglietto omaggio della sua amica: il concerto del suo idolo. Aveva atteso con l’euforia di un’adolescente quella serata.  Prepararsi, uscire, sentirsi giovane; quindi scatenarsi, ballare,cantare, libera una volta tanto dal peso di tanta responsabilità.

 

“Credo negli esseri umani, che hanno coraggio di essere umani.. prendi il coraggio e rialzati, tu puoi fidarti di me, io sono uno qualunque, uno dei tanti uguali a te..”

E quell’essere umano che si era ritrovata casualmente al fianco al concerto aveva,  oltre ad un sorriso che stendeva, una voce avvolgente,  uno sguardo di cui fidarsi: proprio “uno dei tanti uguali a te”. Naturale rivedersi anche  se

l’ultima cosa che cercava era qualcosa che sconquassasse il binomio perfetto che avevano costruito lei e la sua creatura. Neanche un battito di ciglia quando, prima che la cosa diventasse importante, gli aveva detto di avere un figlio. Anzi.

La macchinina negata a Giovanni era arrivata subito, prima ancora di un regalo per lei.  Era iniziato tutto così:  a seguire  l’euforia dei primi mesi, la sensazione che potesse essere la persona giusta, la ricerca di  una nuova abitazione, gli spazi pensati anche per Giovanni. Ma soprattutto  miracolosa l’armonia tra quei due uomini, quello piccolo e quello grande. Cosa desiderare di più?

 

Poi, una sera , il primo interrogatorio, ma così, casuale:  come mai era rientrata un po’ più tardi del solito? Irrilevante comunque, anzi accettabile: si preoccupava per lei.

Se anche un dubbio l’aveva sfiorata, l’aveva cancellato

quella notte, mentre ascoltava il respiro regolare del suo uomo, attento, sollecito, aggrappata alla sua schiena, le gambe raggomitolate nell’incavo delle sue.

Qualche giorno dopo era arrivato il tono inconsueto della voce: qualcosa di sconosciuto, stridente. La mente  di Gemma aveva cercato subito una giustificazione: aveva ragione lui e, se voleva mantenere quella relazione,  doveva dirgli tutto. Era il compagno che  proteggeva lei e il suo bambino dai pericoli del mondo, aveva sanato le  calamità passate, c’era lui per quelle presenti e ci sarebbe sempre stato per quelle  future, suppliva economicamente ai bisogni suoi e a quelli di Giovanni, soprattutto ora che le avevano ridimensionato le ore di lavoro.

 

Non ricordava nemmeno quando era arrivato il primo schiaffo: dalla memoria l’aveva cancellato perchè ravvicinato, confuso con tutti agli altri a seguire.

Schiaffi.  Suppliche.

Urli. Richieste di perdono.

Pugni. Pentimenti.

Botte e fondotinta. Tanto, tanto fondotinta.

Minacce di morte e  promesse di nuova vita. Queste ultime rinnovate. Sincere.

Sincere fino alla prossima volta.

Non si era sbagliata del tutto: attento lo era, succedeva sempre quando  Giovanni era all’asilo,  oppure a giocare con la sua inseparabile macchinina dal figlio  della vicina.

Ma  un giorno  quell’accortezza non era bastata: Giovanni aveva fatto irruzione nella stanza all’improvviso e aveva visto e sentito. Era uscito senza dire nulla .

Da allora Gemma, che non aveva le parole per dire, spiegare, aveva smesso di guardare suo figlio negli occhi.

Gli cantava la ninna nanna   la sera, al buio, quando non  c’era pericolo di incrociare   gli occhi indagatori di Giovanni.

 

“Fai la nanna frugolino

che di pane ce n’è pochino

ne di crudo ne’ di cotto

ne’ di macinato troppo.

Ma per te, mio frugolino

ne è restato un pezzettino..”

 

Era successo un pomeriggio  e stavolta  Giovanni non era uscito dalla stanza; non finiva  come nei cartoni animati: nessuno rideva alla fine della lotta, la sua mamma non restava tutta aggiustata come prima, come quelli che, anche se ridotti a sottilette, con uno scatto eccoli ancora più baldanzosi,  non scattava una musichetta allegra insieme alla parola “fine”. Il bambino si era buttato  tra loro due, era finito a terra, si era rialzato con quel segno sulla tempia fatto dalla carrozzeria della macchinina che aveva in mano. Però non era stato quel  piccolo livido, niente di preoccupante, comunque un marchio, un  timbro, un  monito,  a salvarla.

Erano stati gli occhi di Giovanni che si erano piantati con forza dentro i suoi e non la mollavano. Non aveva aperto bocca, non si era mosso, non smetteva di fissarla. Gemma aveva avvertito tutti i perchè dentro quel silenzio gridato. Soprattutto aveva visto, al di là del bambino, l’uomo che suo figlio sarebbe diventato.

Lì, in quel preciso momento aveva deciso:  non avrebbe mai permesso che suo figlio respirasse la violenza, che se ne facesse contaminare;  lui doveva diventare solo, esclusivamente,  un uomo di dolcezze.

 

Così, con tutta la calma che non credeva di possedere,  il giorno dopo aveva composto quel numero letto in una locandina, che nemmeno credeva di ricordare, ma conservato chissà perchè,lì nella memoria nascosta.

Non era stato  facile, ma la voce che aveva accolto la sua disperazione era pacata, rassicurante,  una pomata lenitiva per la sua anima.  Aveva dovuto armarsi di tutto il suo coraggio quando, rimasta  da sola con il figlio, aveva preparato l’indispensabile,  quando, stringendo la mano di Giovanni con la morte nel cuore, aveva chiuso la porta di quella casa in cui aveva buttato dentro tanti, troppi sogni.  Spezzati, distrutti.

  • Mamma, devo tornare in Ho dimenticato una cosa.
  • Tesoro mio, no, no, ti ho spiegato: adesso andiamo in un altro posto. Sarà bellissimo amore. Soli, io e te.
  • Mamma è importante, è importantimissimissimo.
  • Facciamo presto Giovanni.

 

Erano tornati indietro: il bambino aveva guardato per l’ultima volta la macchinina che tratteneva in mano, poi l’aveva deposta senza ripensamenti sul pavimento.

  • Così mamma, non si accorge che andiamo via, pensa che torniamo. Quando si  accorgerà saremo nell’altro posto, quello bellissimo. Siamo più veloci noi, mamma, super super veloci.

 

Erano  arrivati al luogo concordato al telefono. Solo dopo aver raccolto tutto il coraggio che aveva e anche quello che non possedeva,  insieme ad  una volontaria del centro antiviolenza, aveva varcato l’ufficio di polizia. Non ricordava nemmeno come era riuscita a fare la denuncia, ma l’aveva fatta! Quando erano giunti in quel luogo protetto, nella casa di accoglienza per le donne come lei, lontano da casa, appena il bambino sfinito si era addormentato, finalmente aveva pianto. Erano le lacrime di chi si è lasciato indietro una vita, di chi non  ha sicurezze, non sa cosa farà il giorno dopo e quello dopo ancora, di chi ha accumulato solo  punti interrogativi sul futuro.

 

La luce adesso non cercava più di insinuarsi tra le imposte. Il sonno di Giovanni era tranquillo, profondo anche se la manina stasera non stringeva la macchinina.

“Fai la nanna frugolino

che di pane ce n’è pochino

ne’ di crudo ne’ di cotto

ne’ di di macinato troppo.

Ma per te mio frugolino

ne è restato un pezzettino.

Fai la nanna fai la nanna

che il tuo pane non mancherà,

la tua mamma ci sarà”

 

Di  una sola cosa era assolutamente certa: quando il suo bimbo si fosse svegliato l’avrebbe guardato negli occhi.

Loretta Casagrande

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