La narrativa di Philip K. Dick

Un filo conduttore

Il sottile filo rosso che percorre ossessivamente la narrativa di Philip K. Dick (dove la K sta per Kindred) è la percezione più o meno distorta che l’essere umano ha della realtà circostante. Il sugo – se vogliamo semplificare all’estremo – è che niente potrebbe essere come sembra, anche se poi magari di fatto lo è.

Paradossi temporali. Androidi che non sanno di essere tali. Viaggiatori dello spazio che, giunti a destinazione, sono convinti di muoversi all’interno di una simulazione. Sono alcune delle situazioni che ritroviamo nei romanzi e nei racconti dello scrittore americano.

 

La ricerca della consapevolezza

Il suo pregio maggiore sta nel rendere del tutto originali e impreviste le variazioni sul tema. Il filo di cui sopra è l’unico elemento che ricorre nelle sue opere. Consapevolezza è la parola d’ordine di un universo i cui personaggi si dibattono alla ricerca di un principium individuationis attraverso il quale trovare una chiave di lettura per affrontare quello che si presume essere il mondo reale.

A fare da contorno, tutta una serie di componenti accessorie. Le manie religiose. La follia. Esseri dotati di capacità extrasensoriali. Droghe di nuovissima concezione. I viaggi nello spazio. Distopie più distopiche del distopico. Società post-atomiche. E molto altro.

 

Philip K. Dick e il cinema

Da romanzi come Ubik, La svastica nel sole, L’occhio nel cielo, Tempo fuor di sesto, Cronache del dopobomba, L’androide Abramo Lincoln, Nostri amici da Frolix 8 eccetera eccetera, il cinema ha attinto a piene mani.
Direttamente, realizzando Blade Runner e altre pellicole che però privilegiano l’aspetto pirotecnico (vedi Paycheck, Atto di forza – quello con Schwartzenegger – e Minority Report, tanto per citare qualche titolo).

L’influenza indiretta dell’autore è stata più massiccia, ma si è rimasti decisamente in superficie. Basti pensare all’inutile trilogia di Matrix, che a questo punto tanto innovativa non appare più. La ricordiamo per gli effetti speciali, per la presenza accessoria di Monica Bellucci, per la trama incoerente e confusa… se la coppia di registi si fosse fermata al primo capitolo, nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.

Molte pellicole si sono forse ispirate – senza saperlo – a un solo aspetto della narrativa di Philip K. Dick, dando luogo a una vera e propria saturazione tematica. Troppe sono state e sono tuttora le storie con finale a sorpresa, della serie niente è come sembra. Una roba che vista una volta piace e sorprende, ma ripetuta finisce anche per stancare. Qualche esempio: Shutter Island, The Ward-Il reparto, Fight Club, Two Sisters, The Uninvited.

Il principio in sé ci sta tutto. Ma dopo avere visto film come The Sixth Sense e The Others, che lo hanno preso e inserito in una narrazione coerente dove tutto si tiene e ha un senso, il resto non può che riuscire sciapo al palato.

Enrico Cantino

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