La nicchia di vicolo del Pozzo

Effettivamente i motivi c’erano se Carlo aveva oltrepassato il locale senza aver riconosciuto ciò che faceva mostra di sé dietro i vetri. Primo fra tutti: i raggi del sole che si infiltravano bassi sotto i portici e svaporavano i contorni. Anche la richiesta petulante di una gelateria, con cui i suoi figli lo stavano assillando – unica consolazione possibile per quei passi imposti lungo la via centrale della cittadina – aveva distolto la sua attenzione. Sua moglie nel frattempo, qualche metro indietro, indugiava con lo sguardo sulle vetrine dove manichini, statue protese nella loro muta indifferenza, si alternavano a bar o paninoteche dalle anonime scenografie.

In pratica, aveva continuato a camminare. Ma solo per una decina di metri. Appena si era accorto che le chiacchiere dei bambini erano solamente suoni senza significato, si era bloccato.
Qualcosa il suo occhio doveva aver colto dietro ai vetri se aveva ritenuto di consegnarlo alla mente che l’aveva tenuto in serbo. Così, prima che gli venissero chieste spiegazioni, aveva fatto un segno – il resto della famiglia andasse pure avanti – ed era tornato sui suoi passi. Magari quegli oggetti – un tavolo e delle sedie – non avevano niente a che vedere con i mobili appartenuti ad un tempo lontano che ora si affacciavano nel ricordo. Con le mani a cono, per schermare la luce invasiva, si era avvicinato alla vetrata.
Decisamente ci assomigliavano, anche se… Come avevano fatto a finire dentro un bar, talmente distanti dal luogo in cui avevano svolto la loro funzione?

La casa di vicolo del Pozzo n 5! Rammentava che era stato al funerale di Vittorio e di Lidia, i proprietari, morti a pochi mesi di distanza, due tre anni prima. Probabilmente, come succede a chi vuol disfarsi di oggetti inutili, gli eredi avevano postato un annuncio, nell’attesa di qualcuno che cogliesse l’affaruccio, perché solo di questo si trattava: quel tavolo e quelle sedie grande valore non ne avevano di sicuro.
Non senza una certa titubanza, Carlo era entrato nel bar: tra il fuori e il dentro un passaggio di luce ed uno smarrimento improvviso. Ed ora se ne stava immobile, gli occhi bloccati in un raffronto tra ciò che la memoria gli presentava e quello che vedeva. A parte il tavolo e le sedie, unici elementi dalle linee sobrie, al centro della stanza, tutto intorno un’accozzaglia di forme e di colori.
Un pretenzioso bancone con alti sgabelli correva attorno a due pareti; addossate ad un’altra, slot machine che rigurgitavano il loro fracasso e parevano inghiottire delle schiene protese. Sul muro dei poster in cui, su sfondo nero, una mano disturbata aveva tracciato venature raccapriccianti. Due cameriere dallo sguardo artificiale e dalle lunghe unghie glitterate gli avevano rivolto uno sguardo distratto prima di riprendere a parlottare tra loro.

Si era avvicinato al tavolo dal bordo intarsiato, alle sedie con il rivestimento di gommapiuma di un verde intenso, inconfondibile, e con le traverse orizzontali dello schienale arcuate. No, non potevano erano solo una copia. D’istinto si era chinato sotto il tavolo ed eccolo, un piccolo segno, un intaglio di temperino, un’iniziale: la C sbilenca e tremolante.

Una lama adesso grattava in gola, mentre immagini gli franavano addosso come valanghe, legate l’una all’altra in collocazioni imprecise.

A volte sua madre lo portava in vicolo del Pozzo, oppure era Lidia, più spesso Vittorio che s’incaricava di prenderlo all’uscita dall’asilo. Ricordava bene come, appena entrato nella loro casa, al pari di un gatto che istintivamente sa trovare il suo cantuccio nell’angolo migliore, si tuffasse sotto il tavolo. Proprio lì, macchinine di diversi colori trovavano la strada in mezzo a palazzi di mattoncini dall’equilibrio instabile, tra shangai di pastelli mangiucchiati e fogli accatastati con i suoi scarabocchi che volevano rappresentare l’universo. In quello spazio, il gioco ripetitivo del nascondersi, eclissarsi dal mondo, mentre i grandi facevano finta di non vederlo. Colpi di armadietti sbattuti a bella posta, in una ricerca prolungata, a far vedere che non si accorgevano delle gambe sporgenti. E lui, le mani sulla bocca ad imbrigliare risate che volevano scappare.
– Dove sarà Carlo?
Era bello sentire il suo nome, pronunciato con modulazioni diverse: in quella casa diventava un intercalare:
– Dimmi Carlo!
– Carlo, come è andata all’asilo?
– Guarda che bel disegno ha fatto oggi Carlo!
A casa sua invece l’abitudine a non nominare le cose inglobava anche lui. Sotto quel tavolo spariva il bambino dal corpo teso come da un filo invisibile tra i pezzi mal assemblati della sua famiglia, sempre in attesa di gesti di gentilezza miseramente abortiti sul nascere, ad ascoltare silenzi che si alternavano all’ennesimo riversarsi di parole scontrose l’un l’altro.

Qui il tic tac dell’orologio sul muro scandiva il tempo allungato nella sua nicchia, finché una mano si materializzava all’improvviso con un piatto di biscotti. Capitava a volte che un rocchetto di filo cadesse, un ditale tintinnasse rotolando vicino ai suoi piedi; Carlo fulmineo lo catturava, sporgeva la mano, lo tendeva a delle ciabatte, ad un grembiule a fiori.
Era un adocchiare, da dietro le quinte, distanze sfalsate: il mobiletto, sopra il quale erano disposti dei ninnoli, a pochi metri dal suo capanno, sembrava lontanissimo, così come si allontanava il disordine in cui doveva farsi largo a casa sua. A volte succedeva che la mamma telefonasse perché avrebbe tardato e sentiva Lidia rassicurarla: – Ma figurati, per un piatto in più!

Sua madre, nella sua stanca funzione di genitrice, con la fronte accigliata, lo sguardo in un altrove in cui non gli era permesso accedere, sempre di corsa; un panino dato con malagrazia o, quando ci metteva un po’ di buona volontà, un surgelato che non aveva avuto la pazienza di riscaldare da ambedue le parti. Lui non aspettava altro che le cene insieme a Lidia e Vittorio, le zuppe fumanti, cremose, cucinate per lui, dove affondare crostini croccanti, mentre le parole fluivano dentro un pacifico chiacchiericcio: – Ne vuoi ancora, Carlo?
Altre volte invece vedeva Lidia avvolgere una vaschetta col domopack: in quelle occasioni, anche il viaggio silenzioso in macchina verso casa aveva un sapore diverso, di aspettativa per quel qualcosa di buono che era stato preparato appositamente per lui. Ricordava alcune sere in cui, aspettando sua madre, Lidia lo lavava, lo imbozzolava in un grande asciugamano e Carlo si lasciava strofinare come un cagnolino che alza il muso per ricevere le carezze.

Non sapeva precisamente quando tutto fosse finito: forse il cambio di scuola, la fine dell’infanzia che, prima di andarsene, passa a sgomberare abitudini e frequentazioni. In seguito, qualche volta aveva incontrato Vittorio per strada: lo salutava di fretta, evitava le domande che, si vedeva, l’uomo avrebbe voluto fargli, e tutto finiva lì.

– Desidera?- la voce l’aveva fatto sobbalzare.
– Desidererei il tempo indietro, il sistemarmi goffamente sotto quel tavolo. Assemblare Lego sparpagliati, pezzetto su pezzetto. Diventare un vero cavaliere dello zodiaco che combatte e vince.
Naturalmente l’aveva solo pensato. Anche perché lo sguardo freddo della cameriera non sembrava incentivare alcuna confidenza.
Si sentiva a disagio, come chi si trovi di fronte ad un familiare in un contesto sbagliato. Aveva scosso la testa: – Niente, grazie, passando mi era sembrato di aver visto un conoscente qui dentro, ma devo essermi confuso.

Con una una tristezza lieve, si era congedato. Il congedo da una nicchia che, in un tempo lontano, lo aveva protetto da un dolore impreciso, inconsapevole e, mostrandogli abissi inaspettati di serenità, chissà, forse lo aveva salvato dalle sue ceneri.

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