“La strana morte del signor Benson” – S.S. Van Dine


Voto: 2.5 stelle / 5

“La strana morte del signor Benson” è il primo poliziesco del critico e scrittore S.S. Van Dine, autore di best seller tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.

In questo romanzo del 1926 debutta il controverso investigatore Philo Vance, mattatore di una serie di dodici indagini. Elegante, attraente, brillante, più dandy di Oscar Wilde. Per i detrattori, poco empatico, affettato, irritante, vanesio, dalla cultura di improbabile ampiezza. Raymond Chandler lo definì “Il personaggio più inutile della letteratura gialla”.

Pertanto, da appassionata del genere, ho deciso di conoscere questo autore di persona, iniziando da “La strana morte del signor Benson”, dai più considerato il migliore.

Trama di La strana morte del signor Benson

L’enigma da risolvere è l’assassinio di un esponente dell’alta società newyorkese, in apparenza dai numerosi contatti, nemici nessuno. Uno di quei crimini che fanno scalpore, oggetto delle più svariate speculazioni.

Chi è la vittima, ucciso con un colpo di pistola in fronte nel suo studio? Un socialite di Manhattan, un maturo festaiolo protagonista delle cronache mondane. Meglio non rivelare di più.

“Venti regole per chi scrive romanzi polizieschi”

Ero anche curiosa di vedere la traduzione pratica di alcuni principi teorici sul giallo a firma dello stesso Van Dine.

Perché nel 1928 sulla rivista “The American Magazine” pubblicò un celebre articolo: “Venti regole per chi scrive romanzi polizieschi”. Tradotto in Italia nel 1976, ha una doppia finalità. Marcare il perimetro del poliziesco rispetto ad altri generi affini come horror, noir, gotico e avventura. Indicare le soluzioni narrative off-limits.

Penso che questo decalogo possa aver contribuito a garantire la sopravvivenza del genere, ma non a garantirne la qualità spesso frutto, come la storia della letteratura insegna, di contaminazioni, riletture, adattamenti e deroghe.

Ecco una sintesi delle regole di Van Dine, che riporto per dovere di cronaca:

  • Il colpevole deve essere estraneo alla cerchia di chi, in veste ufficiale e ufficiosa, indaga sul caso;
  • Il cattivo non può spuntare nell’epilogo come un deus ex machina risolutivo;
  • Il responsabile non deve essere un’associazione o un gruppo di individui, perché la colpa collegiale ha un impatto fiacco sul pubblico; mai il maggiordomo; deve essere uno solo come l’investigatore;
  • Poiché l’asse portante è un’ inchiesta, descrizioni di sentimenti, emozioni, luoghi devono essere funzionali ad essa; per lo stesso motivo sono banditi vicende amorose e risvolti sentimentali;
  • L’unico fatto criminoso degno di un giallo è l’omicidio;
  • L’intreccio deve essere lineare: problema, analisi, soluzione;
  • L’indagine deve procedere per deduzione logica, senza l’intervento dell’irrazionale;
  • Il fair play impone che lettore e detective gareggino ad armi pari, possedendo stessi indizi e informazioni;
  • Occorre evitare espedienti grossolani per aggirare impasse: suicidio, morte accidentale, sogni profetici e visioni, gemellarità, sedute spiritiche, l’enigma della stanza chiusa dopo il sopralluogo degli inquirenti, un deus ex machina che si materializza all’improvviso.

Recensione

Il narratore è un avvocato, una sorta di factotum legale personale di Philo Vance. Decide di trascrivere i casi cui ha avuto il privilegio di partecipare. E come il dottor Watson incarna il buon senso dell’uomo comune.

Per scherzo, oppure no?

Mi diverte pensare che Van Dine sia un appassionato della tragedia greca per l’importanza che attribuisce alla concentrazione della storia. In fondo, Edipo re di Sofocle non è un giallo?

E che Van Dine avrebbe biasimato le soluzioni originali proposte in “L’assassinio di Roger Ackroyd” e “L’assassinio sull’Orient express” da Agatha Christie. Quanto alla gemellarità, avrebbe cestinato “Io uccido” di Giorgio Faletti.

Un investigatore troppo letterario

Philo Vance è un dandy poliedrico, aristocratico per nascita ed investigatore per diletto. Non è interessato al trionfo di verità e giustizia. A spingerlo è l’appagamento narcisistico.

L’autore lo descrive con minuzia perché lo presenta come vero. A me sembra una figura esageratamente costruita ed astratta.

Piatta come un foglio di carta, malgrado le sue competenze enciclopediche. Perspicace e cinico come Holmes. Collezionista d’arte alla Huysmans. Il confronto avanzato da alcuni recensori con Andrea Sperelli, secondo me, non regge per l’assenza di velleitarismo. Perché Vance di arte occidentale ed orientale se ne intende davvero. Davvero…troppo: è questo a renderlo ridicolo. Pittura, scultura, architettura, porcellane, arazzi, tappeti, manufatti, stampe, oreficeria, oggettistica e numismatica.

Come se non bastasse è versato negli sport, un mago a poker, è poliglotta latino compreso. Quanti motti della lingua di Cicerone lardellano le sue osservazioni. Convinto che il metodo infallibile per individuare colpa e responsabilità sia l’analisi psicologica, più efficace degli indizi materiali. Ora capisco il motivo del giudizio negativo di Chandler.

Philo Vance non è un personaggio antipatico, ma semplicemente stucchevole.

Bravo Chandler

Riguardo la struttura, “La strana morte del signor Benson” presenta un’impostazione diaristica che in 25 capitoli scandisce sette giorni.

La parabola investigativa, dal rinvenimento del cadavere alla scoperta del colpevole, copre una settimana.

I numerosi personaggi collegati alle forze dell’ordine servono a far emergere, per contrasto, cultura, ingegno, conoscenza del comportamento umano di Philo Vance. Le loro accurate descrizioni hanno un margine di ambiguità.

Da un lato contribuiscono alla loro caratterizzazione. Dall’altro rallentano il ritmo, a danno dell’azione che ha lo sprint di una tartaruga. Non parlo di quella che gareggia con Achille nel famoso paradosso filosofico.

Non leggerò altre inchieste dell’investigatore più snob nella storia del poliziesco. “La strana morte del signor Benson” di Van Dine mi sembra cerebrale e poco coinvolgente.

Anche questa volta Chandler ha fatto centro.

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