L’allievo e il Maestro

Ogni samurai sa bene che l’abilità tecnica, da sola, non basta: essa costituisce infatti un punto di partenza, non di arrivo. Serve allo sviluppo armonico del corpo. Dopo di che, si raggiunge uno stato di inconsapevolezza, durante il quale tutto quello che si è appreso emerge in maniera quasi automatica dall’inconscio. L’io è superato. Finalmente. Perché da lui dipende la paura che blocca ogni azione. Afferma il Maestro Taïsen Deshimaru: «Si è troppo attaccati al proprio io, per questo si ha paura. Abbandonate il vostro io e non avrete più paura».

Pensare senza pensare

Se mentre combatte il guerriero comincia a riflettere, pone le basi della propria sconfitta. È vero che l’uomo è un essere pensante, però le cose migliori gli vengono quando non pensa. Per non fare fesserie, deve dimenticare se stesso. Una volta fatto, egli pensa senza pensare. Come dice Lao-tzu: «Fare senza fare, agire senza agire, gustare senza gusto». Non è un concetto semplice. Diciamo che si tratta di un pensiero non-cosciente, libero da ogni tensione e affrancato da ogni legame. È il principio del non-io.

Sempre secondo Deshimaru «l’intuizione e l’azione devono scaturire nel medesimo istante; non è permesso pensare nella pratica del Budo. Quando si agisce, intenzione e azione devono essere simultanee». I movimenti del samurai debbono essere automatici e succedersi con la massima naturalezza. Così si evita di “telefonare” all’altro le proprie mosse. Importa solo il “qui e ora”. Vittoria o sconfitta, vita o morte, si decidono nello spazio infinitesimale di un attimo. Ogni scelta va effettuata nel più breve tempo possibile, cogliendo il momento adatto. Come sostiene Nabeshima Naoshige, «se si riesce a valutare il momento, la vittoria sarà sicuramente nostra».

Questo, però, non vuol dire che un guerriero non debba essere anche previdente. Secondo il samurai Shiba Yoshimasa, la preparazione e la cura di ogni minimo dettaglio sono importanti: «Molti uomini ritengono di dover agire solo a seconda del tempo o della situazione che stanno affrontando, e così vanno in confusione quando qualche difficoltà insorge all’improvviso». Ovviamente occorre anche essere flessibili: capaci cioè, di adattarsi alle circostanze. Con una tattica rigida e immutabile non si fa molta strada.

Svuotare la mente dai pensieri

La mente va svuotata da pensieri, riflessioni o preoccupazioni. Deve potersi muovere liberamente in ogni direzione: se non si sofferma su qualcosa, infatti, non può farsi distrarre da nulla. Cascano a fagiolo le parole di Chuang-Tzu: «la mente di un uomo perfetto è simile a uno specchio. Non si afferra a nulla. Non si aspetta nulla. Riflette ma non trattiene. Ecco perché l’uomo perfetto può agire senza sforzarsi».

Shiba Yoshimasa ribadisce il concetto: «l’uomo che professa il mestiere delle armi dovrebbe calmare la sua mente e osservare la profondità di quella degli altri». In questo modo, può tenere nascoste le proprie debolezze all’avversario – di fronte al quale deve mostrarsi imperturbabile – e individuarne al tempo stesso le incertezze. Per vincere, insomma, bisogna identificarsi nell’avversarlo. Conoscerlo a fondo consente di conoscere se stessi. Concetto sintetizzato dalle parole di Tsutomu Oshima: «Per ottenere la vittoria devi metterti nei panni del tuo avversario. Se non comprendi te stesso, perderai il cento per cento del tempo. Se comprendi te stesso, guadagnerai il cinquanta per cento del tempo. Se comprendi te stesso e il tuo avversario vincerai il cento per cento del tempo».

In sostanza, l’antico codice etico dei samurai delinea un percorso di formazione, una ricerca interiore che dura per tutta la vita. Mai pensare di essere arrivati, di avere portato a termine il proprio compito: non esiste un punto di arrivo. L’Hagakure è molto chiaro al riguardo: «In una disciplina non si giunge mai al termine. Quando pensi di essere arrivato alla fine, sei contro lo spirito della disciplina». E poiché la conoscenza porta al miglioramento di se stessi, ogni guerriero che si rispetti è mosso dalla volontà di perfezionare il proprio apprendimento.

Colui che è nato prima

Ci vuole, naturalmente, una guida che mostri al samurai la Via da percorrere: il sensei. La parola è composta da sen («prima») e sei («nato»). Significa «colui che è nato prima». È il Maestro, di cui così parla Dave Lowry nel saggio Lo spirito delle arti marziali: «Nessuno, non importa quanto sia ben intenzionato, o preparato, può ragionare a lungo senza la guida di un maestro. Quest’ultimo è indispensabile. […] Il maestro è l’unica fonte di insegnamento. Senza di lui, lo studente vaga in giro come un non vedente. […] Solo seguendo le istruzioni del maestro c’è la speranza di seguire correttamente la Via».

La superiorità del Maestro deriva dalla saggezza, frutto dell’esperienza. Proprio su quest’ultima si fonda la filosofia delle arti marziali, perché l’allievo impara facendo. Il sensei è una figura complessa: profondo conoscitore della propria disciplina e grande educatore, possiede la capacità di trasmettere agli allievi l’essenza del suo stile, per impedire che vada perduto. Il suo compito è mettere continuamente alla prova il pupillo.

Negli anime guerrieri, robotici e sportivi la percentuale di sensei che fungono da istruttori e trainer è altissima. L’addestramento prevede una serie di esperienze disumane, che mettono a dura prova il fisico e lo spirito del malcapitato di turno senza oltretutto lesinare i colpi bassi (anzi, infimi). E tutto “per il bene” del discepolo, spesso consanguineo del sensei. Basti pensare a Tommy Young, allenato da un padre che definire inflessibile sarebbe un pietoso eufemismo (Tommy la stella dei Giants); oppure ad Arin, pilota del Danguard, trattato a calci nel sedere dal genitore, che si nasconde sotto la maschera del Capitano Dan (Danguard). È ovvio che queste serie tendono a esasperare un concetto molto importante, espresso dal samurai Takeda Nobushine: «Se non si fanno mai sforzi, sarà difficile emergere in questo mondo».

L’allievo

L’allievo si chiama invece kōhai. Possiede una buona educazione, ama la disciplina prescelta e venera incondizionatamente il proprio Maestro. Senza la sua guida, non gli sarebbe possibile percorrere la Via del Guerriero. Il rapporto tra “insegnante” e “allievo” è di natura personale, oltre che reciproca (perché imparano entrambi). Rappresenta uno dei legami fondamentali della vita. Da una parte, il padre-padrone; dall’altra, il figlio sottomesso. Due nature distinte, destinate a diventare una sola entità. Questa impostazione carica il Maestro di una responsabilità che va oltre i doveri del semplice docente.

La prima cosa da fare è raggiungere l’assoluta padronanza della materia. Il passo successivo sarà utilizzare l’abilità tecnica per crescere sul piano spirituale. Il Maestro svolge più che altro la funzione di timoniere: indica al ragazzo la via da seguire, accompagnandolo alla scoperta di se stesso. La trasmissione della conoscenza avviene attraverso una sorta di processo osmotico, così descritto da Dave Lowry: «[l’allievo] apprende intuitivamente gran parte di ciò che il maestro vuole da lui. Assorbe le nozioni in maniera inconsapevole durante l’allenamento». Dopo di che, il discepolo dovrà camminare da solo: potrà contare soltanto su se stesso e sulle proprie risorse interiori. Ancora Lowry sostiene che il maestro «rimane in qualche modo sullo sfondo, anche se è al centro di tutto l’allenamento. […] Dev’essere osservato in ogni momento, i suoi comandi devono essere obbediti. Lui solo può guidarci su questo particolare cammino».

L’ultima fase è forse quella più dura: il distacco dal sensei. In diversi anime, la separazione è lacerante: spesso, il giovane si trova a dover affrontare e uccidere il Maestro, come Crystal nei Cavalieri dello Zodiaco. Comunque vada, il kōhai nutrirà sempre una inimmaginabile gratitudine nei confronti del sensei e serberà per sempre il suo ricordo nel cuore.

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