“Lavorare stanca” – Cesare Pavese


Voto: 4 stelle / 5

Diversi anni è durata la composizione di “Lavorare stanca”. È una raccolta di poesie ritoccata più volte dal suo autore Cesare Pavese e uscita prima nel 1935 con 45 poesie e poi, per Einaudi, nel 1943, con 70 poesie di cui 39 appartenenti alla prima edizione. Io ho trovato in biblioteca l’edizione 1984 de “I coralli”, per Einaudi.

Dello stesso autore abbiamo recensito anche “La luna e i falò“.

Cos’è Lavorare stanca

“Lavorare stanca”, che titolo didascalico, mi sono detta quando il gruppo Facebook “La chiave di lettura” l’ha scelto come lettura condivisa di maggio. E poi di cosa parlerà, di lotte sindacali? sarà un “Metello” in versi? “Chi non lavora non fa l’amore”?

Ecco di fronte a cosa mi sono trovata: colline, tramonti, il suolo spaccato, il suolo inclemente, cani girovaghi, pezzenti per strada. Poi ancora la terra, la terra indifferente, quella che assorbe il sangue, la terra che di notte torna di nessun padrone e quindi di tutti, che di notte si riposa, si rappacifica.

“Non si muore d’estate”.

Ho trovato il sole che secca le colline, la terra spaccata, il mare “inutile”, la riservatezza, il pudore, il lavoro dell’uomo, gli animali e l’aria “che ubriaca”. E, poi ancora, la fatica: dell’essere madri, dell’essere stati giovani, del ritrovarsi ombra di sè stesso.

Recensione

Nella raccolta di poesie di Cesare Pavese “Lavorare stanca” ho scoperto un fascino che non mi aspettavo nella poesia descrittiva: ho trovato il mattino negli occhi, le stoppie ovunque.

Quello che più mi ha stupito è il ciclo dei Paesaggi, in cui ricevevo ogni volta una prospettiva inaspettata, un gesto su cui riflettere, un assioma.

Alcune di queste poesie del primo Pavese (“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” sarà scritta solo nel 1951, otto anni dopo l’ultima versione di questa raccolta) portano un ritmo che valorizza la lingua italiana e dà peso alle parole, all’afa, alla ruvidezza degli uomini. Altre sono più vicine a una narrazione in versi, per accontentare il suo “bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresì una logica”, come spiega lui stesso nella dettagliata appendice del 1940.

“Queste dure colline che han fatto il mio corpo

e lo scuotono a tanti ricordi, mi han schiuso il prodigio

di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla.”

“Lavorare stanca” ha riempito i miei ritagli di tempo con vere e proprie sensazioni tattili, dal ruvido al liscio, dalla luce spaccata del mezzogiorno alla penombra rosata della sera. Una buona compagnia.

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