“Memorie dal sottosuolo” – Fedor Michajlov Dostoevskij


Voto: 4 stelle / 5

“Memorie dal sottosuolo” è un romanzo di Fedor Dostoevskji scritto nella prima metà del 1864, pubblicato diviso in due puntate sulla rivista “Epocha”, diretta da Dostoevskji stesso assieme al fratello.

Trama di Memorie dal sottosuolo

“Memorie dal sottosuolo” consta di due parti: la prima intitolata “Il sottosuolo” e la seconda “A proposito della neve bagnata”.

Nella prima parte Dostoevskji conduce una battaglia contro la catalogazione dell’uomo e delle sue sfaccettature in formule, che lo appiattiscono. E, se vogliamo, si tratta di una riflessione al passo coi tempi a noi contemporanei. Viene rappresentato il sottosuolo del personaggio-narratore, attraverso un monologo, che dà voce ad un costante fluire di pensieri.

Illuminismo e Naturalismo: l’uomo assume la voce di Dostoevskji e si lascia andare a riflessioni circa il contesto sociale, dominato da teorie illuministiche, contro cui l’autore scaglia una critica ferrea.

Nel momento in cui scrive ha 40 anni e rivive il tempo passato nel sottosuolo, distaccato e ai margini della società.

La seconda parte racconta alcuni eventi della vita dell’uomo, ambientati nel passato, quando aveva circa 24 anni. I suoi tentativi di essere parte del contesto sociale mostrano una personalità abietta, cattiva, di una persona, che, sebbene sia “evoluta”e colta, è in grado di commettere azioni vergognose.

Recensione

“Io sono una persona malata…io sono una persona cattiva”

Questo è il famoso incipit del romanzo, senza dubbio d’impatto e molto originale come tutto il resto. Infatti per la sua eccezionalità fu accolto negativamente: il contesto era dominato dal Naturalismo, dalle teorie positivistiche quindi la critica rifiutò in toto le provocazioni dello scrittore russo, che manifestava un orientamento controcorrente.

Tornando all’incipit: chi è questo io? Una definizione non c’è, non sappiamo praticamente nulla di lui. E’ lui il narratore onnisciente, che si racconta in prima persona. Fin dall’inizio comincia a mettere nero su bianco i suoi pensieri, rivolgendosi ad un interlocutore immaginario, e si delinea la figura di un uomo colmo di contraddizioni: è malato, ne è consapevole ma non si cura. Perchè? Per cattiveria.

“Il mio fegatuccio soffre? Bene, che soffra pure, e ancora di più!”

Psicanalisi di un antieroe

Il protagonista stesso si definisce un “antieroe”, un mascalzone, il più abietto, il più ridicolo. Si è disabituato alla “vita vera” per rifugiarsi, per circa vent’anni, nel suo sottosuolo, cioè l’inconscio, la sede della sua vita interiore, colma di mostri che condizionano il suo agire. La parola “mostro” non è casuale, se collocata all’interno della visione di Dostoevskji circa la psiche.

Il sottosuolo è un luogo oscuro e pericoloso, coincidente con il male, ma, ben prima della nascita della psicanalisi, l’autore ci sprofonda dentro per analizzare e scoprire cosa si nasconde nei meandri dell’animo umano.

Dostoevskji si fa precursore dell’analisi psicologica del Novecento, portando alla luce la frammentazione e la disgregazione dell’io nell’uomo.

La malattia

“Ero perpetuamente consapevole di come vi fossero in me tantissimi elementi quantomeno in contraddizione con ciò. Li sentivo che mi brulicavano dentro. Quegli elementi di contraddizione.”

Il personaggio antieroe all’inizio si dichiara cattivo ma, in modo quasi infantile, si giustifica e si nasconde dietro a dei capricci, che mascherano la sua vera essenza: è un uomo colmo di contraddizioni e ne è consapevole, conosce il suo stato di lacerazione, e ciò lo porta alla sua malattia. La consapevolezza è un’ “autentica malattia”.

La sua eccessiva conoscenza di sé lo rende più intelligente rispetto agli altri e al contesto che lo circonda, popolato da persone spontanee e “stupide”. Il narratore vive agli antipodi a causa di una “consapevolezza potenziata” e agisce diversamente rispetto all’uomo normale, anzi “non agisce”, poiché viene sormontato da una massa di dubbi, pensieri e problemi, che lo faranno sprofondare sempre più nel sottosuolo.

L’homme de la nature et de la veritè

L’homme de la nature et de la veritè è stupido per una condizione innata, è l’uomo della natura, che sottostà alle sue leggi, alle norme matematiche, che possono essere studiate per comprendere e prevedere il comportamento umano

“[…]sarà la scienza stessa a insegnare all’uomo[…]che in effetti egli non ha né una volontà né alcun capriccio, e non ne ha nemmeno mai avuti, poiché egli altro non è che una sorta di tasto di pianoforte […].”

Dostoevskji si scaglia duramente contro questo meccanismo e, nel corso dell’opera, inveisce molto spesso nei confronti del Naturalismo: l’uomo non può essere considerato un tasto di pianoforte, citando la definizione di Diderot, soggetto alle regole matematiche della natura.

L’uomo non è soltanto raziocinio e prevedibilità: ridurlo ad un insieme di leggi obiettive è eliminare la sua volontà, cioè la vita. L’atto di volontà è il “manifestarsi della vita intera”, compreso il raziocinio.

La vita può essere bella o brutta ma è vita, è espressione di personalità e individualismo, ciò che, secondo Dosotoevskji, viene minacciato dalle teorie positivistiche del Naturalismo. E’ molto meglio essere consapevoli di tutto, delle impossibilità e dei “muri di pietra”, davanti ai quali l’uomo della natura si arrende.

La volontà come essenza

“Quello che occorre all’uomo è solamente un suo volere indipendente, qualunque cosa gli dovesse poi costare tale sua indipendenza e a qualunque esito dovesse portarlo”.

L’uomo esprime attraverso la sua volontà il suo desiderio, la sua persona e talvolta anche cose abiette, turbi, ignobili perché non esiste l’obbligo di desiderare solo cose intelligenti. Anzi l’uomo per sua natura è un essere del tutto irragionevole, a tal punto da gettare all’aria tutti i vantaggi per poter esprimere la sua volontà, anche se ignobile.

Fornito di tutti gli strumenti per condurre una vita perfetta, finirà per commettere una “pasquinata”. Dovrà fuggire dall’eccesso di ragionevolezza e prendere fiato nel fantastico: la perfezione, nel senso di finito, non appartiene all’uomo, un essere sconsiderato che si nutre di caos e distruzione. La ricerca mantiene vivo l’uomo, la perfezione coincide con la sua morte.

Conclusione

Sicuramente si tratta di un romanzo piuttosto particolare, spesso si rischia di perdere il filo in quell’insieme di riflessioni e pensieri che vengono scritti, ma al contempo invitano il lettore a riflettere su molti temi che possono riguardare i nostri tempi: in special modo, la salvaguardia dell’individualismo e della personalità dell’uomo, insieme anche ad una sorta di mistificazione della razionalità umana, a discapito delle sfaccettature di ogni singolo individuo, comprendendo anche gli aspetti più “ignobili” della mente umana.

Viviana Gatti

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