“Niente di nuovo sul fronte occidentale” – Erich Maria Remarque


Voto: 5 stelle / 5

“Niente di nuovo sul fronte occidentale” del 1929 di Erich Maria Remarque è un romanzo unico. Infatti l’autore, in bilico tra cronaca e diario, tra reportage e memorialistica, racconta il dramma della sua generazione distrutta dal primo conflitto. Un romanzo incisivo e potente.

Ci sono i sogni e gli ideali infranti di ragazzi diciannovenni, troppo giovani per avere un progetto. C’è lo scontro a muso duro con la realtà della guerra, che spegne i colori di chi si sta affacciando sulla soglia dell’esistenza. E poi la consapevolezza della necessità dell’indifferenza da parte di chi è ancora in piedi.

Mi sono commossa rileggendo i capitoli sulla licenza del protagonista per il pudore, la delicatezza, l’ostinazione con cui chi resta a casa cerca di proteggere chi torna dal fronte, e viceversa. Il che a dire dissimulare sofferenza e privazioni, fingere compostezza per non aggiungere dolore al dolore. Perché la licenza è una parentesi crudele, avvelenata dall’amaro della partenza e dall’incertezza del ritorno. Una bolla emotiva.

Non è una recensione

Sto sfogliando “Niente di nuovo sul fronte occidentale” a distanza di alcuni anni dall’ultima lettura. Riporto alla spicciolata alcuni punti significativi e tristemente attuali. Il desiderio è condividere questa lettura con chi la ama e, soprattutto, con i giovanissimi che ancora la ignorano.

  • I protagonisti sono diciannovenni della stessa classe alle Superiori, che si arruolano come volontari nella Prima guerra mondiale. A spingerli un sincero quanto vago patriottismo.
  • L’incipit antieroico mostra la soddisfazione di una razione doppia di cibo e tabacco. Non si tratta del premio che anticipa uno scontro mortale come in “Un anno sull’altipiano” di Lussu. Tale abbondanza dipende da un errore logistico negli approvvigionamenti.
  • Quando un compagno muore, insultato da una dolorosa agonia, il pensiero degli amici corre al vantaggio di potere indossare degli stivali ancora in buono stato: quelli del morto. In guerra i sentimenti sono un orpello.
  • La carriera militare è lo sbocco naturale per individui frustrati inclini alla violenza, prima di tutto con atti di nonnismo.
  • Gli occhi degli adolescenti conferiscono alla guerra un timbro romantico che il primo morto sul campo spazza via. Perciò rimane il nulla nella mente e nel cuore. Perché, osserva con perspicacia Remarque, i ragazzi non hanno un passato professionale e sentimentale cui aggrapparsi e neppure una progettualità da inseguire: “non avevamo messo radici e la guerra come un’inondazione ci ha spazzati via”. Inoltre dei preuniversitari come loro ignorano un mestiere. E la scuola a cosa è servita, se non a credere che fosse giusto ammazzare?
  • Combattere in prima linea significa perdere la vitalità della paura, perché la casualità dei colpi “rende indifferenti”. Ma non indifferenti al pane, ai topi, ai pidocchi, alla grappa ossia agli unici fatti che contano.
  • L’esperienza bellica traghetta l’individuo dal senso di fraternità con un mondo ancora tutto da scoprire all’indifferenza rispetto ad esso.

Altre riflessioni

  • Nella licenza a casa non c’è spazio per l’allegria o la serenità di un fugace ricongiungimento familiare, bensì la rassegnazione della giovinezza perduta, perduta insieme al senso della vita.
  • L’incomunicabilità è il tratto distintivo della licenza anche nei contatti sociali. È impossibile soddisfare la curiosità di chi al fronte non ci è andato oppure tenere testa a quelli che la guerra la fanno a tavolino; “soltanto l’ospedale mostra cosa è la guerra”.
  • L’estraneità da se stessi è un mezzo di sopravvivenza.

La guerra è un inutile spreco di energie:

Vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro che si uccidono a vicenda. Vedo i più acuti intelletti del mondo inventare armi e parole perché tutto questo si perfezioni e duri più a lungo”.

Un grande classico sul pacifismo, di struggente malinconia come il film “La grande illusione” di Renoir.

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