Analisi di un racconto di Jaime Valdivieso – “Storia di Margherita”

Alle pagine 88-89 dell’antologia I racconti più brevi del Cile, pubblicata nel 1997 da Fahrenheit 451, si può leggere Storia di Margherita, mini-racconto dello scrittore cileno Jaime Valdivieso.


Il mini-racconto di Jaime Valdivieso

Molto presto di mattina la si sentiva tossire. Preparava la colazione e, silenziosamente, rifaceva le stanze.

Poco dopo, cominciava a cucinare.

Più tardi d’estate, più presto d’inverno, innaffiava il giardino interno, quindi il fieno di fronte alla porta d’entrata dalla strada.

Da lontano la si poteva vedere con il tubo dell’acqua in una mano, che guardava, vagamente assente, i riflessi d’argento sull’erba.

Margherita non aveva amici né parenti.

Era magra, pallida e dolce, con una tristezza quasi bella.

La radio, le teleserie, la vita dei due o tre pensionati e quella delle donne che venivano a far loro visita, erano l’unico alimento della sua inquietudine. Con uno sguardo e un gesto che l’allontanavano da se stessa, chiedeva agli uomini che evitassero di farla soffrire, che, se fosse necessario, mentissero.

Margherita non usciva mai. Tutti i giorni faceva le stesse cose. Dalla notte alla mattina invecchiò. Le caddero i denti. Cominciò a vergognarsi. Si copriva la bocca.

Poco dopo, una certa mattina, non la si sentì più tossire.

 

copertina antologia i racconti più brevi del cileAnalisi di Storia di Margherita

Come si vede, non c’è un dove, né un quando. Ci si muove in un’atmosfera di indeterminatezza biblica.

Sono poche le cose che apprendiamo sul conto di Margherita. Si alza molto presto e tossisce. Probabilmente è malata. E in maniera cronica. Non parla mai. Svolge in silenzio quello che deve fare. E basta. Quasi la sua esistenza non avesse alcuno altro scopo.

Il suo ritratto, peraltro scarno fino all’eccesso, non si sofferma granché sulle caratteristiche fisiche. Nel senso che l’autore non la descrive. Ci dice soltanto che era magra, pallida, dolce, triste e quasi bella (sei quasi brutta, priva di lusinga, verseggiava Guido Gozzano).

Margherita non aveva amici né parenti. Ogni suo gesto tradisce una solitudine della quale sembra non curarsi più di tanto. Del resto, Franz Kafka ci ha abituato alla supina accettazione di un destino magari crudele e insensato che però non viene percepito come tale. Però è lei stessa ad allontanare la gente da sé: Con uno sguardo e un gesto […] chiedeva agli uomini che evitassero di farla soffrire, che, se fosse necessario, mentissero.

I suoi doveri vengono elencati con una certa freddezza. O forse è semplice indifferenza. È probabile li esegua tutti con lo sguardo vagamente assente. All’inizio non si capisce per conto di chi lavori. Verso la fine del racconto ci viene suggerito che potrebbe essere la proprietaria di una pensione o di una struttura simile. Si parla, infatti, di due o tre pensionati e delle donne che venivano a far loro visita.

L’unica emozione che si concede è l’inquietudine, alimentata dalla radio, dalle serie televisive e dai suoi ospiti. Per il resto conduce un’esistenza monotona e meccanica, all’insegna della segregazione: Margherita non usciva mai. Tutti i giorni faceva le stesse cose.

L’epilogo è fulmineo: la donna decade nel giro di poche ore (dalla notte alla mattina), quasi fosse una sostanza chimica. Ma anche in questo caso, al lettore non viene comunicato molto: soltanto che si vergogna del fatto che le cadano i denti.

La probabile morte della donna non viene data per certa. Chiude il racconto una frase buttata lì con noncuranza, giocata più che altro sul non detto, su quanto è lecito indovinare. Perché sintetizzare significa soprattutto escludere alcune cose a vantaggio di altre.

Del resto, si sa.
Le sventurate rispondono.

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