“Ruggine americana” – Philip Meyer


Voto: / 5

Ruggine americana è un romanzo del sottogenere mistery. Scritto da Philip Meyer e pubblicato per la prima volta il 24 febbraio 2009 da Spiegel & Grau.

La passivazione è un fenomeno di natura elettrochimica che può rallentare o impedire completamente la reazione di corrosione dei materiali metallici che altrimenti questi ultimi subirebbero, contrastando la diffusione della ruggine.

Il fenomeno consiste sostanzialmente nella formazione di un sottile film (costituito da prodotti della corrosione, sostanze presenti nell’ambiente aggressivo o ossigeno adsorbito sulla superficie del metallo) che aderisce perfettamente alla parte della superficie del pezzo a contatto con l’ambiente aggressivo (ad esempio acqua o aria).


Trama Ruggine americana

copertina ruggine americana

“Ruggine americana” racconta la storia di Isaac English e Billy Poe: ventenni, amici, diversi tra loro che di più non si può. Isaac è minuto e intelligentissimo, Poe non particolarmente brillante e sempre pronto a menar le mani. Vivono nella Mon Valley, Pennsylvania, area industriale presso la quale fiorivano le acciaierie. Ma le acciaierie sono appassite, sono state chiuse, Buell è diventata una città di relitti industriali, con edifici per metà abbattuti, case fatiscenti, uomini disoccupati e giovani perditempo. Tutti si conoscono, tutti conoscono i trascorsi di Isaac e quelli di Billy.

Così i due ragazzi cercano di passivarsi scappando, o, per lo meno è quello che desidera Isaac, intrappolato in una vita che non vuole, accudendo il padre vedovo e paraplegico. Forse lo vorrebbe anche Poe, ma non può allontanarsi, è in libertà vigilata per aver quasi ucciso un ragazzo a mazzate giù, a Donora. E poi Poe ama la valle, ama la caccia di frodo ai cervi. Tuttavia accompagna Isaac nel tentativo di fuga, a piedi, lungo la ferrovia per andare lontano, a Berkley, a studiare perché Isaac è sì un tipo strano e solitario, ma è probabilmente il più geniale della vallata, o forse anche dello Stato. La prima notte però i due fanno una cavolata, anzi la fa Isaac: per difendere l’amico, uccide un barbone.

Da questo punto in avanti le vite dei due protagonisti si dividono e noi li seguiamo nell’arco di una settimana, seguiamo le loro vite, i loro spostamenti.

Il romanzo “Ruggine americana” è suddiviso in capitoli che portano il nome di chi ci racconta quella parte di storia; oltre ai due protagonisti, incontriamo Lee (sorella di Isaac), Grace (madre di Poe), Harris (capo della polizia e “amico” di Grace) ed Henry (padre di Isaac).

Recensione

Lungo tutta la narrazione i sei si passano il testimone e ci accompagnano in un romanzo introspettivo, dove possiamo entrare nei pensieri più intimi, nelle paure più profonde di ognuno di loro. Li accomuna la necessità di proteggersi da quella ruggine che sta coprendo la città e le persone, devono passivarsi dal degrado della corrosione di una società in piena crisi economica. Una crisi che si ripercuote sui delicati equilibri familiari, anche su quelli di Isaac e Poe, e un po’ su tutti gli equilibri e ci mostra la faccia deteriorata dell’America, nemmeno lei è sempre lucida e scintillante.

Sì, perché Ruggine americana è un gioco di equilibri, i flussi di coscienza di ognuno sono in bilico tra il considerare l’ineluttabilità del destino (doveva andare così) e il riconoscere che ogni decisione condiziona l’istante successivo della nostra vita in modo irrimediabile. Se abbiamo commesso uno sbaglio, dobbiamo pagarne le conseguenze. Ma “del senno di poi sono piene le fosse” e un po’ ne è piena anche quest’opera prima di Meyer.

La prosa di Mayer è molto particolare, l’autore sembra non amare molto le virgole, e nemmeno le frasi troppi lunghe, ma soprattutto quello che mi ha dato del filo da torcere è stato l’uso dei verbi, il passaggio dalla terza, alla seconda, alla prima persona all’interno della stessa frase. Mi ci è voluta qualche pagina per capire come interpretare questi salti, però poi mi sono entusiasmata: è un modo efficace per entrare in perfetta sintonia col narratore di turno.

Un ottimo esordio per questo statunitense, potrei dire. Ma non lo dico, dico solo: un buon esordio, perché il finale ha un neo. Infilarci un “regolamento” al modo de «Il giustiziere della notte» no, poteva inventarsi una qualsiasi altra situazione, poteva risolverla senza ricorrere a quell’americanata che mi è suonata come una terribile forzatura.

Chiara Carnio

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