“Trattato di medicina in 19 racconti e 1/2” – Arben Dedja


Voto: 4 stelle / 5

“Trattato di medicina in 19 racconti e ½” ed. Whitefly Press 2020 è un libro di Arben Dedja, medico albanese trasferitosi nel 2000 in Italia, ricercatore medico presso l’Università di Padova. L’autore ci racconta la medicina albanese al tempo di Enver Hoxha e della fine del regime, attingendo alle storie di famiglia e alle memorie della sua iniziazione alla medicina.

Cos’è Trattato di medicina in 19 racconti e ½

Arben è cresciuto in una famiglia di medici. Nel primo racconto il protagonista è il nonno paterno, che ha studiato medicina a Padova durante gli anni del fascismo e, tornato in Albania, ha esercitato la sua professione sotto il regime di Enver Hoxha, nella capitale Tirana e nella sperduta provincia, con impegno e dedizione, indifferente al potere e ai guadagni. Suo malgrado, grazie alla preparazione e alla serietà professionale, ha salito gli scalini del potere, diventando anche Ministro della Sanità, ma riuscendo a mantenere le mani pulite ed una certa distanza dai maneggi della politica.

Al giovane nipote insegna l’arte della medicina, quella di chi ha interesse solo a salvare vite, senza retorica e falso pietismo. Sono eroici e paradossali i racconti sulla medicina di guerra, gli slalom tra le correnti politiche e i volubili favoritismi che gli fanno guadagnare, inconsapevolmente, la fiducia e le medaglie di un potere corrotto, non abituato a gente indifferente ai vantaggi personali, votata solo al proprio dovere e alla propria missione.

Divenuto egli stesso, Arben, medico, come il nonno e il padre, fa le sue prime esperienze nei villaggi sperduti delle montagne albanesi, nella precarietà di vita e di condizioni mediche e negli ambulatori di un Pronto Soccorso albanese negli anni turbolenti della caduta del regime.

In questo ospedale di frontiera, un manipolo di professionisti, il primario Fatosh, i giovani assistenti, gli specializzandi, le infermiere, con capacità e improvvisazioni affrontano, come in una prima linea, appendiciti, amputazioni, ferite da kalashnikov, infezioni, epidemie.… Fatosh, con gli occhi perennemente arrossati dalla mancanza di sonno e dal fumo delle sigarette, antieroe disincantato, ma maestro e medico esperto, è una figura a cui ci si affeziona inevitabilmente.

Recensione

Apparentemente cinici ed indifferenti, a tratti crudeli di fronte alla malattia, salvano vite umane abbandonate nel dolore e nella sofferenza, alla deriva in un paese ormai sull’orlo dell’abisso. Affondano il loro bisturi nelle carni molli e sfatte di vecchi soli e ignari, nei muscoli di giovani facinorosi e violenti, nelle viscere di bambini e giovani. Unico scopo salvare una vita e, metaforicamente, salvare un paese gravemente malato.

L’ospedale di Fatosh e compagni sembra l’Albania nella tempesta del dopo Hoxha. Confusione, violenza, attentati, vendette, povertà, ma anche umanità, coraggio, desiderio di sopravvivere ed improvvisi gesti di solidarietà e pietà antica. La medicina come metafora della vita. Nella sofferenza e su un lettino di ospedale siamo tutti uguali: buoni e cattivi, vittime ed oppressori e il medico ci salva o farà di tutto per salvarci, dimenticando il suo stesso pericolo e la sua stanchezza, senza giudicare, senza risparmiarsi. Ci restituisce alla vita, se può, e poi passa ad un altro letto, ad un altro malato. Siamo tutti malati, siamo tutti mortali.

Patrizia Tazza

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