“Tre vite” – Gertrude Stein


Voto: / 5

Nel 1909 la trentatreenne americana Gertrude Stein, che si era stabilita da pochissimi anni a Parigi, pubblicò con una casa editrice newyorkese “Three lives”. Il libro fu tradotto in Italia da Cesare Pavese in “Tre esistenze” solo nel 1940, quando aveva già segnato un nuovo modo di fare narrativa nella letteratura americana, caratterizzandolo con il flusso di coscienza e l’utilizzo di una forte aggettivazione e di una buona dose di ermetismo. “Tre vite” è stato ripubblicato da Elliot nel 2014.


Trama di Tre vite

tre-vite-elliot-copertinaCome anticipa la copertina dell’edizione Elliot, le tre vite di cui parla il libro sono quelle di due donne bianche e una nera. La buona Anna, Melanctha e la gentile Lena sono tre esponenti della working class. Noi le conosciamo nella loro età adulta, con qualche incursione nell’infanzia grazie a degli sbalzi temporali: le conosciamo mentre sono a servizio di qualcuno e sono impegnate a fare il loro dovere fino a quando non muoiono.

Con uno stile palesemente ricorsivo riceviamo la sensazione crescente che questi personaggi passino il tempo a cercare di autoconvincersi che quello sia il loro ruolo e quello sia il loro dovere. Accudire persone o luoghi, sposarsi, fare figli appaiono passaggi necessari che accadono più perché devono accadere, che perché li si desidera. I nomi e cognomi dei personaggi vengono ripetuti di continuo, anche nel giro di poche righe, come macchiette medievali di cui bisogna imparare bene pregi e difetti perché rimarranno sempre quelli. Anche le loro condizioni sembrano immobili: viene ribadito più volte che Anna aveva “una vita complicata e inquieta”, o che Jeff non era “svelto abbastanza”, o che Lena “non pensava molto al suo matrimonio”. I personaggi sembrano ricevere allo stesso tempo una forte caratterizzazione e una gabbia.

Recensione

Ho riempito questo libro di piegature. È uno stile non particolarmente introspettivo (“scrivo con gli occhi”, pare abbia dichiarato la Stein) e anzi a tratti chiuso in se stesso, spesso pronunciandosi senza esplicitare, girando intorno a scelte e sensazioni senza veramente chiamarle per nome. Questo modo di fare narrativa non innamora subito. È asfissiante e giudicante, sin da quando definisce Anna “tetra” e “indignata”, o Melanctha affamata di “saggezza”, o Lena tanto “gentile” quanto impotente. La storia che ho sentito più vicina è quella di Melanctha e Jeff, che si amano tantissimo ma non riescono ad accettare le loro differenze caratteriali. È una storia centrale rispetto al libro e anche la più lunga: su 245 pagine, ne ha dedicate 120, praticamente la metà.

“E così presero a vivere tutti e quattro insieme a casa Kreder, e Lena iniziò presto a sembrare trasandata, sporca e meno vivace, e nessuno si rese mai conto di che cosa mancasse a Lena, e lei stessa non seppe mai veramente di cosa avesse bisogno”

Le storie di Anna, Lena e Melanctha sono storie tenui. Per la maggior parte del tempo scorrono senza particolari picchi narrativi o impeti decisionali da parte di queste donne. Anna ha un bisogno per lei rassicurante di controllare cose e persone, Lena, al suo contrario, subisce passivamente tutto quello che le accade senza quasi nemmeno realizzarlo. La fine di entrambe è desolata e desolante, e liquidata in pochissime righe.

“Ora non ti amo più, Melanctha, come se il mio amore fosse una religione, perché so che sei come tutti gli altri. (…) Io adesso so amarti, e profondamente.”

Fra le storie emerge quella di Melanctha, che è l’unica donna a non avere una forte aggettivazione. Delle altre due donne conosciamo molte cose perché seguiamo il loro punto di vista sempre grazie a questa voce narrante molto alta. Il personaggio di Melanctha invece è espresso fortemente dall’azione e ci scervelliamo a comprenderlo insieme a chi lo circonda, a chi parla di lei e a quel povero Jeff di cui è innamorata e di cui conosciamo pensieri e paure. È come se l’autrice ci dicesse che una natura libera come quella di Melanctha non si può ingabbiare né compenetrare… anche se nemmeno è destinata a una sorte diversa dalle altre, perché non sembra destinata nemmeno lei alla felicità.

Mi viene in mente che l’irrequieta Melanctha abbia potuto suscitare una particolare simpatia nell’autrice: ricordiamo che Gertrude Stein stessa visse fuori dagli schemi e condusse apertamente per tutta la vita una relazione omosessuale. Parliamo infatti dell’Europa degli anni ’40, quella che con la seconda guerra mondiale incluse i gay tra le categorie umane “malate” da sterminare.

Quello che rimane di questo libro è il sapore dolceamaro di una qualche verità che ci è stata sussurrata all’orecchio mentre dormivamo e che solo dopo un lento metabolismo si riesce a focalizzare.

Nel frattempo ci resta sospesa una domanda: chi avrà vissuto meglio, delle tre donne?

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