“Una tazzina di caffè”

Un po’ di avanzi di cucina, bucce di patate, foglie di cavolo e radicchio: Francesca ripiega per un cartoccio da portare all’Adele per le sue galline. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che l’ha vista? Se è veramente così – qualche parola sentita, un dire non dire che non ci sta più con la testa – riproporre una consuetudine iniziata parecchi anni prima sarebbe un modo per non insospettirla.

Ma per strada, col suo involto sotto il braccio, sorride pensando che, per un’anima talmente lontana da qualsiasi malizia umana, come l’Adele, il sospetto sia cosa abbastanza improbabile. In un paese come quello, in cui una delle tacite regole in vigore consiglia di soppesare le confidenze, dove le parole il più delle volte sono marcate da un alone di diffidenza, quella donna, per tutti, da sempre, rappresenta l’eccezione. Quella volta, ad esempio, che Francesca aveva osato dirle di mettere uno spioncino alla porta – si sa come vanno le cose, può entrarti in casa chiunque – Adele aveva ascoltato, sorriso e cambiato discorso: non c’era spazio nei suoi pensieri per paure del genere. Anzi, l’attenzione verso gli altri spesso si protraeva la sera con la sua specialità: recitare rosari per conto terzi.

– Non ha nessuno che pensa a lui. Io ne ho di tempo – affermava, e così, fiduciosa che se ne sarebbe fatta carico, coi suoi avemaria, affidava i problemi di questo o di quello alla misericordia divina, tenendo per sé il modesto ruolo di intermediaria.

Veniva naturale conversare con l’Adele.

Quanti, nella sua casa, si erano lasciati andare a confidenze che non avrebbero spiattellato neppure ai familiari, trovando la propria nicchia su una sedia di cucina col cuore intagliato nello schienale, attorniati da un variegato campionario di centrini? Di fronte all’intima armonia che sprigionava il suo sorriso, dolorose tribolazioni o semplici inconvenienti si incasellavano in una nuova dimensione, risultando alla fine più accettabili. Quella donna aveva la capacità di sgrovigliare grattacapi, usando in maniera rilevante il silenzio e in modo parsimonioso le parole.

E per tutti, a seconda dell’età, caramelle o caffè.

Secondo Francesca, era stata proprio l’Adele, un tempo ormai lontano, a sancire il suo passaggio dall’adolescenza all’età adulta, il giorno in cui aveva ritenuto che avesse superato l’età delle caramelle – mai aveva tradito le Rossana, coi pezzetti appiccicosi da sparpagliare sulla lingua – per passare ad una tazzina di caffè. Strano a credersi, ma da quel momento aveva avvertito una consapevolezza nuova, come non potesse essere più quella di prima.

– Ti faccio un caffè! – non era mai una domanda, ma una proclamazione bella e buona. Che non si poteva rifiutare. Quando riteneva che l’interlocutore di turno si fosse rifocillato, lo portava a fare un giro in giardino, nell’orto, gli indicava le galline e, con infinito orgoglio, le sementi disposte su uno scaffale del portico, l’unica cosa che non condivideva con altri, frutto di un lavoro sapiente di raccolta ed essiccazione. Trasmetteva il senso di un mondo organizzato, dove i tasselli si inserivano al posto giusto; con lei si coglieva la vita nell’essenzialità della sua bellezza, nei ritmi naturali che si succedevano, qualsiasi cosa potesse succedere.

Francesca, non senza un certo timore, bussa alla porta: – E permesso? Coglie il rumore di passetti elettrici al di là: ecco Adele riceverla col solito sorriso che riduce gli occhi a due fessure; forse le guance sono più incavate dall’ultima volta, qualcosa grava sulle palpebre, sulla linea della bocca, ma è prerogativa del tempo prosciugare i corpi. Anche la capigliatura, di solito ben assestata, pare un vortice arruffato.

– Sei tu? Che bello, vieni.
La cucina l’accoglie coi suoi odori identificabili, riconosciuti, come le parole che anticipano un rituale consueto.
– Metto su un caffè allora.

Francesca non può non notare innumerevoli foglietti gialli con elenchi, promemoria, brevi annotazioni. Sono dappertutto: sulle porte degli armadietti, sopra il calendario, sulle piastrelle vicino al lavandino. Una trepidazione nuova la prende, mentre segue i gesti della donna: la osserva preparare la moka, riempirne la parte sottostante di acqua, aggiungere una minima quantità di caffè, rimanere col cucchiaino a mezz’aria, indecisa; la vede rimetterlo nel barattolo da dove riemerge subito. Vuoto.

Quindi avvita la moka e la mette sul fornello, poi rimane a fissare il rubinetto rimasto aperto, scuote la testa come dovesse perdonare a qualcun altro la brutta abitudine di lasciar scorrere l’acqua. Il sorriso, subito ripreso, sembra dissolvere il sentore di un’esistenza in cui certezze ed automatismi stiano traballando. Si siede di fronte a Francesca, aggiusta il golfino il quale penzola da un lato, visto che ha uno stesso bottone inserito in due occhielli, con la mano ossuta tormenta il cerchietto che ha al dito e quello, appena un po’ più largo appeso come ciondolo alla collana, quindi spiana la gonna in un gesto ripetuto. A tratti sembra che affidi alla memoria l’arduo compito di recuperare l’identità della persona di fronte, ma che questa scompaia in un mondo scomposto, evaporante.

– Allora, Adele, cosa mi racconti?
Seguono frasi incatenate le une alle altre con accostamenti strani: il pranzo di oggi, il tempo fresco, ciò che dice la televisione, le immondizie da portar fuori, le medicine ordinate dal dottore. Il discorso si fa prendere da un dettaglio, e dal dettaglio del dettaglio, saltellando fra immagini catturate che in fretta si dissolvono.

– Il caffè, Adele, mi pare stia borbottando.
La circospezione con la quale la donna calibra i suoi gesti, quel versare il caffè nella tazzina con una visibile esitazione fa sì che Francesca distolga lo sguardo, come servisse a preservare la dignità della sua interlocutrice.
Quindi, dopo aver vanamente sperato in qualche biscotto che almeno s’imbeva di quell’acquetta stagnante, consuma il liquido sbiadito, appena appena tendente al marroncino.

Intanto la luce incerta del tardo pomeriggio si è impadronita della stanza dove sagome bislacche giocano sul muro, ma nessuna delle due pensa ad accendere una lampada. Mentre Francesca si prepara per accomiatarsi, all’improvviso gli occhi di Adele sono tornate due gocce vivide sulla pelle diafana del viso, il corpo ha un imprevisto piglio scattante.
– Aspetta. Vado a a prendere una cosa.
Ritorna con un sacchettino.

Ha dispensato orazioni, caramelle, caffè e parole come gocce di balsamo per l’anima, l’Adele.
Mai il suo vanto, i preziosi semi di zucca.

– Io non credo di piantarli più. Fallo tu. Devi avere pazienza, aspettare la luna crescente e tenerli all’asciutto.
Le prime parole che vengono in mente a Francesca sono le rassicurazioni: ma cosa dici/non è vero/sei sempre in gamba.

Le solite parole banali di cui quella donna mai ha fatto uso. Parole che non merita.
Si merita promesse l’Adele, merita parole di speranza e premure e impegno dato e mantenuto.
Francesca le stringe le mani, due estremità fredde, intorpidite:
– Grazie. Li terrò con cura. Ma li pianterò con te, m’insegnerai tu come fare. E raccoglieremo insieme le zucche mature. Tornerò presto.
– Ed io in cambio ti offrirò il caffè.
– Certo Adele, il tuo caffè è sempre molto molto speciale.

Non si fa illusioni Francesca: sa che quei mutamenti sono solo i primi dell’infinita serie di una malattia inopportuna e feroce.

Era arrivata con un mucchietto di scarti; torna via sommersa da una tenera amarezza e dalla speranza del tempo che continua, coi suoi ritmi, qualunque cosa accada, come diceva spesso l’Adele, racchiusa in un sacchetto di carta.

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