Cristo si è fermato a Eboli è stato pubblicato per la prima volta nel 1945 da Einaudi, il romanzo riscosse subito un grande successo. Nel 1979 ne è stato tratto un film diretto da Francesco Rosi.
Trama
Cristo si è fermato a Eboli, scritto da Levi in prima persona, è un diario postumo dei suoi due anni di confino in Lucania, nel 1935-36. Prima di iniziare il suo racconto, Levi scrive una sorta di premessa sul significato del titolo che ha scelto per il suo libro.
I contadini lucani affermano di non sentirsi cristiani perché non si sentono uomini: vengono considerati come bestie o ancora meno di queste, perennemente in balìa del volere dei “cristiani” che li sfruttano. Ma oltre al significato simbolico che i contadini attribuiscono all’espressione “cristiano”, c’è n’è uno che Levi definisce “letterale”: “Cristo di è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania…”
Il tono iniziale è molto nostalgico: l’autore è costretto a lasciare Grassano, il paese in cui soggiornava da tempo e che, nonostante tutto, gli era diventato caro, per trasferirsi a Gagliano. Il posto divenuto familiare e l’affetto degli abitanti avevano reso più che sopportabile la sua permanenza in quei luoghi e dover cambiare improvvisamente amici e abitudini gli provoca una comprensibile angoscia.
Levi è un medico torinese che da diverso tempo non esercita la professione, si dedica alla pittura e soprattutto alla politica, cercando di ostacolare la permanenza al potere di Mussolini. Appena arrivato a Gagliano, cittadina in cui morire di malaria è all’ordine del giorno, gli abitanti lo supplicano di visitare i malati. Questi non ripongono alcuna fiducia nei medici del luogo, li definiscono dei “medicaciucci”, e Levi stesso, quando conosce il dottor Melillo, non ne ha una buona impressione e scrive di lui: “I gloriosi insegnamenti della Scuola Napoletana si sono dileguati nella sua mente, e confusi nella monotonia di una lunga, quotidiana indifferenza.”
Levi riesce a dare sollievo a queste persone, diventa presto il loro punto di riferimento, ci riesce nonostante le tante difficoltà incontrate sia nel reperire i farmaci sia nell’ostilità dei medici locali, che non hanno per nulla a cuore la salute dei contadini, ma sentono minacciato il loro controllo su di loro.
Levi guadagna presto il rispetto del popolo e il timore dei signorotti locali: i primi vedono in lui un’ancora di salvezza, i secondi la fine della loro squallida supremazia su di loro.
“I contadini risalivano le strade…come ogni sera, con la monotonia di un’eterna marea, in un loro oscuro, misterioso mondo senza speranza…. i signori, li avevo ormai li avevo fin troppo conosciuti, e sentivo con ribrezzo il contatto attaccaticcio della assurda tela di ragno della loro vita quotidiana, polveroso nodo senza mistero, di interessi, di passioni miserabili, di noia, di avida impotenza, e di miseria.”
Nel 1936, dopo la presa di Addis Abeba il partito dispone la fine del confino per Carlo Levi.
Recensione di Cristo si è fermato a Eboli
Il tono nostalgico con cui inizia il romanzo diventa la cadenza che esso assume fino alla fine.
Un uomo come Carlo Levi non può che trascorrere nella noia le sue giornate in una terra abbandonata da Dio. A salvarlo sono la passione per la pittura, l’impegno per curare gli ammalati e il legame che riesce a instaurare con queste persone: la sua umanità non passa inosservata e l’abisso culturale non è un limite alla sua vicinanza a loro. Finalmente i contadini conoscono un “cristiano” che non usa la sua superiorità per sottometterli, ma mette a disposizione il suo sapere per aiutarli. Questo suscita in loro una sorta di diffidenza verso di lui, fa nascere in loro degli interrogativi: durante la festa dell’Epifania, i contadini avevano l’usanza di portare ai signori dei doni, come i Re Magi e questo rito si tramanda come un ossequio irrinunciabile. Quando, però, i contadini portano i doni a don Carlo, scoprono, con non poco stupore, che questi non può accettarli senza offrire a sua volta qualcosa in cambio.
Il modo in cui guarda i malati gli permette di guadagnarsi ben presto il loro rispetto: non con la superiorità di chi sa di averli in pugno, ma con l’umiltà di chi teme di non essere all’altezza della situazione. Il medico “esiliato”, così lo definiscono gli abitanti di Gagliano, diventa grande ai loro occhi per la sua capacità di farsi piccolo, è un nobile di spirito perché umile nel cuore.
La sensazione è che, nonostante la noia, l’impedimento a potersi occupare delle cose che più lo interessano nel modo e nei tempi in cui vorrebbe, Levi si sia affezionato a quei posti: li ricorda in questo diario come se ne sentisse la mancanza. È un uomo che riesce a dare un senso a tutto e evidentemente ne ha trovato uno anche ai due anni di confino in Lucania: è stato mandato lì per aiutare quelle persone, per dar loro un po’ di luce, una speranza, la consapevolezza che quella cultura che non hanno avuto modo di conquistare può anche aiutarli, non solo tenerli in pugno. Forse per la prima volta nella loro vita conoscono la faccia buona della cultura, quella che considera gli uomini tutti uguali tra loro, senza alcuna linea di demarcazione.
Quando Levi viene a conoscenza della fine del suo confino non scappa dalla Lucania, non fa le valigie e parte, ma resta lì ancora qualche giorno per terminare delle faccende in sospeso. Lui stesso dice all’inizio che “è nella sua natura sentire dolorosi i distacchi.”, evidentemente anche in questi luoghi in cui niente sembra aver senso, è uscito a trovarne uno o forse più d’uno.
Bellissime le descrizioni dei personaggi che l’autore incontra, usa la penna come fosse un pennello per dipingerli: “Sul grande corpo imponente, diritto, spirante una forza animalesca, si ergeva, coperta dal velo, una testa piccola, dall’ovale allungato.”
Molto minuziose sono anche le descrizioni dei paesaggi ma non hanno lo stesso effetto, credo proprio per l’aridità dei paesaggi che Levi stesso definisce con termini poco felici, dice riguardo a Grassano, paese “in cima ad un alto colle desolato”, che amava salire in cima al paese “donde l’occhio spazia in ogni direzione su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo cerchio.”
La narrazione non è molto scorrevole e risulta in alcuni punti piuttosto pesante, difficile mantenere viva l’attenzione per una trama che di fluido non ha molto. Credo che questo ritmo narrativo così statico contribuisca a rendere molto nitida al lettore l’esperienza del confino vissuta da Levi più di ottant’anni fa. La lettura di questo libro è difficile, non breve se commisurata alla lunghezza non eccessiva del romanzo, ma mi ha insegnato tantissimo, ho trovato tanti significati in questa lettura che a tratti mi è parsa quasi noiosa.
Adelaide Landi