“Il buon uso della distanza” – Vito di Battista


Voto: 4 stelle / 5

Il buon uso della distanza” è il secondo romanzo di Vito di Battista, agente letterario, editor, traduttore (Gallucci Editore novembre 2023, 400 pagine). Ringraziamo l’agenzia Anna Maria Riva e la casa editrice per la copia cartacea ricevuta in omaggio.

Svariate motivazioni spingono gli scrittori a impiegare lo schermo di un nome de plume. Scaramanzia, snobismo, marketing. Omaggiare terzi, tutelare la privacy, puntare su una firma vincente, sfidare il mercato editoriale e, perché no?, arginare la paura della popolarità. Talvolta l’identità plurima diventa parte integrante della poetica, oppure lo pseudonimo offre una seconda chance a uno scrittore in crisi di cui l’industria libraria ha decretato la fine.

È quanto accadde a Romain Gary (1914-1980) uno degli autori preferiti da Vito di Battista che riconquistò critica e lettori con il pen name di Émile Ajar. “Il buon uso della distanza” è liberamente ispirato alla sua avventura umana, unica, paradossale e tragica, per la sovrapposizione tra finzione e realtà, identità e maschera.

Trama de Il buon uso della distanza

Secondo una legge non scritta dell’editoria il primo libro non si nega a nessuno, ma solo quelli che valgono pubblicano il secondo. Lo impara presto Pierre Renard, giovane scrittore di origine italiana, che trova il suo heimat nella Parigi degli anni Settanta. Dopo un discreto successo con il romanzo d’esordio, la pubblicazione del secondo viene respinta. Incassa il colpo con l’attitudine rinunciataria che gli è propria e l’amarezza del fallimento, quando riceve una proposta da un mittente che desidera restare nell’ombra. E la trama si tinge di giallo. L’ offerta è allettante: scrivere romanzi su commissione cambiando di volta in volta pseudonimo, nell’esordio perenne di chi pubblica solo opere prime. Il generoso mecenate imporrà plot e canovaccio, tempi di esecuzione, prestanome ammaestrati per sostenere il suo ruolo durante gli eventi pubblici.

Conduce le trattative una figura felliniana, epifania di un altrove, amante di kitsch e cineserie che si circonda di una corte altrettanto grottesca. Sorpresa, perplessità, timore hanno vita breve. Pierre asseconda questo gioco perverso, cieco alle sue implicazioni vessatorie. Sulle prime confida di trovare uno stimolo, un supporto, una speranza. La libertà di diventare un altro lo tenta. Il miraggio di non essere bersagliato dalla critica, tallone d’Achille per l’ego di ogni scrittore, lo rassicura.

Fama, denaro, riconoscimenti non tardano ad arrivare. Però ogni patto col diavolo esige un prezzo. Riuscirà a liberarsi dall’assuefazione a mentire che, prosciugando il suo bacino emotivo, gli sta rubando la vita? Prima dovrà scoprire l’identità del benefattore e le motivazioni sottese al suo piano.

Recensione

L’autore costruisce un sapiente gioco di specchi e simmetrie. Come il talento necessita della convalida altrui per essere riconosciuto, così il protagonista ha bisogno dell’inganno per continuare a esistere in quanto autore. I côté sociali, che all’élite letteraria del romanzo non interessano, vennero scelti da Romain Gary, tra i primi a raccontare l’immigrazione araba nella capitale francese. A fare da contrappunto a Nadine, che dà voce alle ferite del suo passato, c’è Chantal ostinata a imbavagliare le sue. Il cameo dedicato allo scrittore Everett Tanner, che fece dello pseudonimo la sua identità, forma un dittico con l’esperienza di Gary. La coerenza intellettuale di monsieur Durand innesca in Pierre vergogna e sensi di colpa a seguito dei suoi maneggi.

Affiora uno spaccato impietoso dell’editoria corrosa da pettegolezzi, maldicenze, invidie, rivalità, pressioni, favoritismi.

Scrittori più o meno notevoli, critici, studiosi, mogli di intellettuali, intellettuali per lignaggio e per sacrificio, lacchè di professione, accademici che non capivano nulla di editoria e editori che disprezzavano l’accademia, cronisti con il pallino delle colonne culturali, amanti e mantenuti, mecenati a cui erano rimasti da investire soprattutto belle promesse, vecchie leve abbandonate e nuove leve che si preparavano a spiccare il volo verso la gloria

A parole contano talento e novità, nei fatti una giustificazione dell’investimento da parte dell’editore. Il centro di questo ecosistema è la turris eburnea del salotto letterario dove il critico assurge ad arbiter. Può sancire la sorte di un romanzo senza possibilità di appello. Basta una recensione.

Vito di Battista scrive un romanzo d’ambiente ricco di colpi di scena, accarezzando uno dei nuclei più spinosi della filosofia: il confine tra vero e falso e quello ancora più sottile tra inganno e menzogna. Spunto attuale in un’epoca di identità fittizie, fake, disinformazione, definita da alcuni post-truth era. Mentre l’illusione di una vita migliore in un nuovo sé, la crisi identitaria, la maschera che fagocita la persona omaggiano Pirandello.

Lo stile è lineare quanto la mentalità del protagonista. Ti guarda negli occhi Pierre, sempre con lo sguardo in macchina. E se mente, con sé stesso non bara.

Sono certa che “Il buon uso della distanza” di Vito di Battista farà breccia nel lettore.

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  1. Cristina Mosca 20/01/2024

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