Il romanzo di Gigi Riva. La vita come un sogno, quello di un bambino che non sognava mai. A volte le fantasie si realizzano e nessun traguardo si dimostra irraggiungibile. “Il sogno di Achille” è il romanzo della sua vita, che gli ha dedicato un giornalista pugliese del Corriere della Sera, Carlo Vulpio, pubblicato da Chiarelettere a maggio 2020 (274 pagine, 18 euro).
La mano sinistra è del diavolo
“La mano sinistra è quella del diavolo, farai una brutta fine”: ma Luigi, oltre che mancino era un bambino cocciuto e le regole delle suore dell’orfanotrofio di Viggiù non le rispettava, per quanto fossero severe e dure come loro. Scriveva con la sinistra e da sempre ha calciato solo con la “gamba del diavolo”, che poi è stata la fortuna sua e del calcio italiano, tra il 1968 e il 1974, perché Luigi è Gigi Riva, Rombo di tuono come lo chiamava Gianni Brera.
Cinquant’anni fa, Davide ha sconfitto di nuovo Golia: il piccolo Cagliari Calcio è arrivato davanti alla Juventus al termine del campionato di Serie A, regalando un sogno a tutti i sardi e ai tifosi sparsi in Italia di un calciatore nodoso, grintoso, sempre concentrato, immarcabile e con un tiro irresistibile scagliato dall’arto mancino, per lui l’unico utile dei due inferiori, l’altro serviva giusto a reggersi in piedi.
Un nome che sembra un pallone in rete
Gigi Riva, otto sillabe, un nome che sembra un colpo, un calcio, un pallone in rete tanto è secco e veloce. Il sogno di una vita: questo il senso del titolo e del romanzo. Il sogno di un bambino, poi ragazzo, poi calciatore, poi dirigente sportivo, che non sogna e non dorme. Per Gigi, la notte è da sempre il tempo da far trascorrere in attesa di un nuovo giorno, scrive Vulpio. Non riusciva a dormire il piccolo orfano di papà, in un paese lombardo al confine col Piemonte. È a Leggiuno ch’è nato, nel 1944, durante la guerra, da mamma Edis e papà Ugo. Aveva tre sorelle e conduceva una vita senza il troppo, senza il tanto, a volte
anche senza il sufficiente.
Solo polenta a tavola e alle sue osservazioni la mamma replicava che si mangia quello che c’è, senza fare storie.
Un incidente sul lavoro: il papà se n’è andato nel 1953. Non l’avrebbe mai fatto di propria volontà e quella scheggia avrebbe potuto mancarlo. Sarebbe bastato poco, qualche centimetro, per non trovarsi in quel punto in quel momento. “Perché non l’hai risparmiato?” Il piccolo Luigi lo rinfacciava in chiesa a Gesù, imbronciato perché non aveva aiutato il babbo a evitare quel pezzo di metallo che l’aveva trapassato. Lo aveva voluto con sé, in Paradiso come diceva don Pietro.
L’orfanotrofio di Viggiù
Gli era toccato l’orfanotrofio delle suore di Viggiù, a nove anni. Per lui una prigione, da cui non poteva non
cercare di evadere. Non c’era amore né tenerezza dentro quelle mura, arcigne e fredde come le consorelle, che agivano con l’impegno di educatrici inflessibili. I ragazzini dovevano solo “rigare dritto”, senza deviazioni e sentimentalismi. Non ammettevano cedimenti di nessun genere, sembravano aspettare solo l’occasione propizia per punire. Era tutto proibito e mai scrivere con la sinistra, che con la destra Luigi la penna non riusciva nemmeno a impugnarla. Dal collegio delle suore fuggì, come da quello successivo di Varese. A Milano invece l’impresa non gli riuscì, ma i custodi ebbero pane per i loro denti. Era un ragazzo ribelle, lo tenevano sotto osservazione. Non è cattivo, diceva il direttore del collegio meneghino, ma scalcia come un puledro e non vuole farsi mettere le redini.
Non faceva progressi a scuola, ma col pallone ci sapeva fare, tutto storto e legnoso per riuscire a ruotare il corpo dalla parte giusta, a favore del piede sinistro. Il consiglio del direttore era d’insistere col calcio, che avrebbe potuto tenerlo impegnato e farlo sbollire un po’.
La prima rete
Vedeva bene che ribellarsi, tenere duro, resistere ad ogni imposizione era l’unica alternativa ad una fuga che diventava quasi impossibile. Fu così che arrivò la sua prima rete. Convocarono la mamma in collegio e la invitarono a riprendersi il figlio. “Ha 14 anni e un diploma, può trovare la sua strada ed essere più utile altrove”, le dissero.
A Leggiuno riprese a giocare al calcio, nella squadra dell’oratorio, gracile, secco, ma con un sinistro che bucava le mani ai giovani portieri. Lo chiamavano “Forzelina” e lo convocavano per tornei e sfide, dalle quali tornava con un po’ di buon di Dio da mangiare, che gli riconoscevano come ricompensa e che faceva felice ed anche un po’ dubbiosa la mamma: “cosa ne farà questo figlio del calcio?”.
Non tutto vero ma nemmeno inventato
Non è che l’inizio della vita di Gigi Riva, un romanzo che non è tutto vero ma nemmeno inventato, perché se quello che viene raccontato magari non si è svolto in quella precisa maniera non è comunque frutto dell’immaginazione di Vulpio. Tanto vale per le situazioni, i luoghi, le persone. Sono quelli veri e hanno ispirato l’autore attraverso incontri, sopralluoghi, approfondimenti.
La parte principale del romanzo è dedicata al calcio, ovviamente ed anche ai calci che la vita ha inferto a Gigi. E nel racconto ha spazio il miracolo di una squadra, di un’isola e del carattere forte di piccola gente che sa essere grande e comportarsi da gigante, superando i propri limiti e quelli che gli altri cercano di imporre.
Per questo, Luigi Riva di Leggiuno non ha mai voluto lasciare la Sardegna.