Una narrazione seriale
La narrazione delle serie animate giapponesi si basa sostanzialmente sulla serialità, vale a dire sulla ripetizione quasi ossessiva di situazioni e immagini. Bene o male, infatti, gli schemi e le vicende sono sempre quelli. Vengono solo apportate alcune variazioni di volta in volta.
Il pubblico non protesta. La ripetitività, come nel caso della letteratura popolare (vedi gli Harmony e i romanzi della “specialista” Liala) crea affezione negli spettatori, che si sentono rassicurati perché in quei prodotti riconoscono modalità e procedure familiari. Un concetto ben espresso da Lorenzo Marini in Questo libro non ha titolo perché è scritto da un art director: «Vediamo innanzitutto che le produzioni seriali hanno in comune uno schema o ordine strutturale e una forma o ordine ritmico. Rispondono ad un’esigenza primordiale degli esseri umani: il bisogno di sicurezza attraverso la ripetizione. Ne è un tipico esempio il bambino che vuole sentirsi leggere sempre la stessa fiaba».
Ripetizioni visive
È anzitutto a livello visivo che i giapponesi ripetono. La vestizione della maghetta o del guerriero. L’assemblaggio o la trasformazione del robottone. L’eventuale attacco finale del robottone. Le esplosioni alla fine di una battaglia. Tutte queste operazioni vengono raccontate ogni volta con gli stessi fotogrammi e con le medesime frasi di rito, quando esse siano necessarie nell’economia della vicenda. Le ragioni di questo modo di procedere sono originariamente economiche. In Giappone realizzare una serie animata costa parecchio. Per risparmiare si sceglie di utilizzare, in determinate circostanze, il medesimo materiale. Ed è sempre per non scialacquare quattrini che i personaggi si muovono a scatti. Il computer, come si credeva una volta, non c’entra nulla. Se quelle serie fossero state realizzate con la tecnica digitale avrebbero mostrato un’animazione più fluida. La ragione è un’altra e più semplice: per raffigurare un movimento, vengono disegnate soltanto le fasi intermedie, il che toglie scorrevolezza a ogni movenza.
La carenza di disegni finisce per trasformarsi in un vero e proprio codice linguistico. I disegnatori giapponesi convertono in punti di forza le limitazioni imposte loro dalla necessità di stringere la cinghia. Tutto ciò viene organizzato all’interno di un nuovo linguaggio narrativo, mantenuto anche quando i soldi hanno smesso di costituire un problema. Ogni serie viene costruita sulla base di strutture precise e consolidate che oramai costituiscono una sicurezza, dato che il pubblico vuole quello e non altro.
Narrazione e ritualità
La serialità di questi cartoni animati, comunque, non nasce soltanto da esigenze puramente monetarie. Bisogna considerare anche una forte componente rituale, derivante dall’influsso del Confucianesimo sulla cultura giapponese. La parole pronunciate da guerrieri, maghette e piloti di robot nel corso di ogni avventura, possiedono un profondo significato sacrale: si collocano all’interno di una liturgia dalla quale non è consigliabile sgarrare. Un’impostazione piuttosto rigida, così come rigida è la filosofia di Confucio, che insiste molto sull’importanza del rito, ed è come ossessionata dal concetto di “comportamento corretto”.
Ai giapponesi ripetere conviene. E non si limitano alle immagini o alle parole. È un sistema che coinvolge il modo di raccontare storie. Gli anime, a differenza dei prodotti occidentali, sono cartoni animati a tempo determinato. Nel senso che hanno un inizio e una fine: sono, cioè, destinati a concludersi. Magari hanno anche dei seguiti, ma il principio – salvo eccezioni come nei casi per esempio di Detective Conan, Doraemon e One Piece − è di non continuare fino allo sfinimento (dello spettatore o degli autori stessi).
La struttura degli episodi
Quanto agli episodi, sono collegati l’uno con l’altro. Succedendosi, formano una sequenza narrativa e danno un senso di continuità allo svolgimento della vicenda. Il pubblico sente che sono parte integrante di una storia. I combattimenti di Goldrake acquistano un senso perché inseriti in un contesto preciso: la lotta del pilota Actarus contro gli invasori spaziali che, dopo avere distrutto il suo pianeta natio, vorrebbero conquistare la Terra. Questo è il collante che tiene insieme i vari scontri fra robottone buono e mostro cattivo. In pratica, sono degli sceneggiati più lunghi del normale.
Al primo episodio viene affidato il compito di presentare quasi tutti i personaggi principali e minori (cui, di solito, se ne aggiungono altri in corso d’opera) e inquadrare la trama. Niente viene lasciato al caso: l’ambientazione, le informazioni di massima relative alla storia, e, dulcis in fundo, l’eventuale accenno a quei due o tre enigmi e misteri che vengono inseriti durante la serie per essere svelati nel finale o giù di lì.
I giapponesi hanno pure un’altra mania: molto spesso, per mantenere ben sveglio l’interesse dello spettatore, concludono l’episodio nel momento di massima tensione, interrompendo la narrazione proprio sul più bello. Per sapere in quale modo l’eroe riuscirà a battere il proprio avversario (sportivo e non) e come il protagonista riuscirà a venire fuori da una situazione critica o imbarazzante, ci tocca aspettare la puntata successiva (che in Giappone ha una cadenza settimanale).
Non è l’unico trucco di cui si servono per tenere sulle spine il pubblico. La conclusione di un combattimento fra guerrieri, di una partita fra squadre di calcio e di eventi in qualche modo simili, viene continuamente rimandata grazie a digressioni, contrattempi e assurdi colpi di scena che si susseguono senza tregua: ne sa qualcosa chi ha visto Holly e Benji e Dragonball Z. La vicenda viene tenuta in sospeso, al punto che viene da chiedersi: ma quando cavolo finisce? Perché quando sembra che la situazione stia finalmente per risolversi, succede qualcosa di imprevisto che rimette in gioco tutto.
In fondo, è la strategia delle Mille e una notte: raccontare per il puro piacere di farlo, rimandare fino all’ultimo la conclusione. Perché da essa dipende la nostra vita.