“Uno yankee alla corte di re Artù” – Mark Twain


Voto: 5 stelle / 5

In “Uno yankee alla corte di re Artù” troviamo un versatile Mark Twain alle prese con la fantascienza sociale. “Mio bel messere, volete giostrare?” disse il tipo. Comincia l’avventura di Hank Motgan nell’Inghilterra del 528 d.C., con tutto quello che comporta per un uomo di fine Ottocento piombato nel passato.

Americani su, inglesi giù

Satira di costume a fine 1800, da una parte all’altra dell’Atlantico settentrionale. E complesso di superiorità dello statunitense Twain nei confronti dell’Europa, soprattutto dei britannici d’Albione. Sotto questi aspetti, un romanzo anche di grande interesse storico-sociologico e pensare ch’è stato fatto circolare in versioni ridotte per ragazzi. È “Uno yankee alla corte di re Artù”, datato 1889, opera dello scrittore Samuel Langhorne Clemens, noto con lo pseudonimo Mark Twain (1835-1910), colonna della narrativa americana, anche umorista e conferenziere. La casa editrice Mattioli 1885 di Fidenza ha pubblicato nel 2020 una versione integrale (402 pagine, 16 euro), per la traduzione e con l’introduzione di Livio Crescenzi.

È lo stesso curatore – archeologo e collaboratore delle sezioni di letteratura USA del marchio editoriale emiliano – a mettere in risalto la “temperie” in cui l’opera ha visto la luce. Twain ha messo a punto il romanzo tra il 1886 e il 1889, in pieno confronto sulle ricadute politiche, sociali e morali dello sviluppo industriale e della concentrazione del potere economico-finanziario. Un dibattito che possiamo paragonare a quello sulla globalizzazione nel Duemila. Proprio nel 1886 si cominciava a parlare di capitalismo, opposto al proletariato.

Yankee, orgoglio identitario

A quest’opera dello scrittore yankee (Twain insiste con orgoglio identitario sul termine coniato in modo sprezzante dagli inglesi per gli ex coloni, un po’ la polemica l’italiano polentoni-terroni), i critici hanno attribuito il significato di una specie di parabola a vario titolo. Una dissertazione sull’imperialismo e il colonialismo politico-economico europeo e statunitense. Sul crescente potenziale della tecnologia, che recherebbe già in sé la minaccia dell’annientamento. Sui mali della grande impresa. Sugli abusi del potere politico. Sullo schiavismo del Sud. Sull’aristocrazia finanziaria americana. Sul militarismo moderno.

E tutto attraverso le vicende di un uomo del suo tempo catapultato in una società di tredici secoli prima.

Immaginate di ritrovarvi all’istante 1300 anni indietro. Dopo l’ovvio sgomento, chiunque comincerebbe a studiare come applicare le proprie conoscenze per migliorare la tecnologia arretrata che vi trova, la scienza, la medicina e tutto il resto.

Uno strano forestiero

Il racconto di “Uno yankee alla corte di re Artù” è sempre al passato e distinto in due fasi. Nella prima, il narratore non è il protagonista, ma lo scrittore stesso. Dice di avere incontrato “quello strano forestiero” nel castello di Warwick. Un uomo di candida semplicità e riposante compagnia, dal momento “che parla solo lui”, in tono sommesso, piacevole, dimostrando un’eccezionale conoscenza delle armature antiche.

Senza interrompersi, sembra allontanarsi dall’oggi e addentrarsi in un’epoca remota, in un antico paese dimenticato. Parla dei grandi nomi della Tavola Rotonda con naturalezza, come dei vicini di casa: ser Bedivere, ser Bors de Ganis, ser Lancillotto del Lago, ser Galahad e tutti gli altri. Poi, domanda all’improvviso all’interlocutore se abbia mai sentito parlare di trasmigrazione delle anime e trasposizione di epoche e di corpi.

La guida del castello ferma il gruppo dei visitatori davanti a una cotta di maglia protettiva, fatta di anelli metallici. Risale all’epoca di re Artù, VI secolo ed è attribuita al cavaliere ser Sagramor il Desideroso. Reca un foro circolare sul petto, a sinistra: a detta del cicerone si suppone sia stato fatto tempo avanti, forse da un proiettile esploso dai soldati di Cromwell.

Sorridendo, lo strano forestiero sussurra “io l’ho visto fare”, anzi “l’ho fatto io stesso”.

Uno yankee alla corte di re Artù: d’improvviso, 1300 anni indietro

In serata, nella locanda, al quarto whisky scozzese bollente, si mette a raccontare la sua storia, con semplicità e naturalezza. Ed ecco che l’io narrante diventa Hank Morgan, americano nato e allevato nel Connecticut, in campagna, ad Hartford. Un vero yankee. Padre fabbro ferraio, zio veterinario, lui approdato in una grande fabbrica di armi, dove ha imparato a costruire tutto: fucili, rivoltelle, cannoni, caldaie, motori, ogni macchina che sostituisce i lavori a mano. E quando non c’era modo di costruire qualsiasi cosa, lo inventava rapidamente.

Da sovrintendente capo, aveva sotto duemila operai, omacci da sorvegliare anche a manate. Alla fine, aveva incontrato qualcuno del suo stampo e un forte colpo di sbarra alla testa lo aveva steso.

Il mondo era sparito in un gran buio, per un bel po’. Si era ripreso seduto sotto una quercia, in un campo magnifico. Un tipo a cavallo lo fissava dall’alto. Sembrava uscito da un libro illustrato. Indossava un’armatura di metallo dei tempi antichi, completa da capo a piedi. Elmo a forma di barilotto fornito di fessure. Scudo, spada e una lancia. Corazzato anche il cavallo, sotto una stupenda gualdrappa di seta rossa e verde, pendente fino quasi a terra. Un corno d’acciaio sporgeva sulla fronte.

Il cavaliere gli aveva rivolto la parola in inglese arcaico: “Mio bel messere, volete giostrare?”.

Comincia l’avventura di Hank nell’Inghilterra del 528, con tutto quello che comporta per un moderno tornato nel passato…

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