“Guerre che ho visto” – Gertrude Stein


Voto: 5 stelle / 5

“Guerre che ho visto” (“Wars I Have Seen”) è uno degli ultimi libri di Gertrude Stein pubblicati mentre lei era ancora in vita. È stato scritto durante la seconda guerra mondiale e pubblicato nel 1945, mentre Gertrude Stein è morta a gennaio 1946. La traduzione in circolazione è ancora quella di Giorgio Monicelli nel 1947 per Mondadori. La copia che ho letto è del 1980, con l’introduzione della docente universitaria di Lingua e Letteratura anglo-americana Barbara Lanati.

Di Gertrude Stein abbiamo recensito anche “Tre vite”.

Trama di Guerre che ho visto

“Guerre che ho visto” è un diario atipico, steso come un lungo flusso di coscienza, nel periodo in cui l’autrice americana era sfollata nella campagna di Parigi durante la seconda guerra mondiale. Non è suddiviso in giornate, capitoli o stacchi di paragrafo.

Dopo sporadici excursus ed efficaci paragoni sulla guerra di Crimea e sulla prima guerra mondiale, il lasso di tempo fra il 1942 e il 1944 viene presentato come un unico blocco, scandito solo ogni tanto da un “oggi” o da una data, ma concentrato soprattutto su una narrazione estremamente colloquiale. Al primo posto ci sono aneddoti, constatazioni, moti di stupore nel confrontare la situazione del presente con le guerre passate e con tutti gli altri presenti possibili, se non ci fosse stata la guerra.

“Nel diciannovesimo secolo si ha la sensazione che si sia giustificati a essere arrabbiati, ad aver ragione, a essere giustificati. Nel ventesimo secolo non conta che una cosa sia giusta ma che ciò che accade accada veramente”

In un tempo sospeso e come in apnea, i punti di riferimento cambiano, le proporzioni saltano e aneddoti e notizie ufficiali finiscono sullo stesso piano. La prospettiva che gli alleati possano arrivare in un certo giorno è tanto importante quanto sapere se le galline abbiano fatto le uova.

Tutto si mescola e si appiattisce, dando vita però a una testimonianza viva e coinvolgente della guerra così come l’hanno vissuta i civili.

Recensione

Ho ripescato questo libro dai miei scaffali perché ho approfittato di una challenge mensile che mi riportava da Gertrude Stein. Ho sottovalutato la lunghezza del libro (260 pagine, ma scritte fitte fitte) e la challenge mi è scaduta… ma devo dire che è stata una lettura che di sfide ne vale cento.

“Nel diciannovesimo secolo noi tutti ci eravamo abituati alla permanenza. La permanenza era naturale necessaria continua. Permanenza e progresso erano sinonimi, questo sembra strano ma naturalmente è abbastanza comprensibile. Se le cose sono permanenti voi potete credere nel progresso se le cose non sono permanenti il progresso non è possibile e così il diciannovesimo secolo credeva nel progresso e nella permanenza, nella permanenza e nel progresso. E ora? Bene ora non c’è né l’uno né l’altro.”

Innanzitutto, la malizia e la tenacia di Gertrude Stein saltano fuori vigorose e tridimensionali. Ho capito di apprezzare i diari, più delle autobiografie, perché restituiscono la vita in presa diretta e portano con sé non solo i pensieri, ma anche i sentimenti: il sollievo, la paura, le voci di corridoio. Le supposizioni della gente, i sentito dire… il tempo sospeso.

“C’era una sola cosa molto strana nelle guerre come le vedono i bambini e cioè che pur essendo piene di morti non sono affatto reali”

Gertrude Stein si iscrisse all’università di medicina perché voleva studiare il cervello e si è affiancata allo psicologo William James, che all’inizio del Novecento ha sdoganato il flusso di coscienza. Il suo stile è basato sullo scorrere dei pensieri e caratterizzato dalle reiterazioni di una lingua estremamente colloquiale. L’ho trovato un regalo prezioso; un vero e proprio velo che si alza sulla sua mente.

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