C’è elettricità nel cortile dell’asilo.
Chi sta in gruppo, chi in coppia; qualcuno si sposta a salutare un amico in arrivo, qualcun altro – il piede a disegnare figure nel ghiaino – solo, in compagnia della propria inquietudine. Incroci di sguardi quando i colli si allungano nel tenere d’occhio la porta d’ingresso.
Intanto, aspettando di venire accolti da un’educatrice – preferibilmente premurosa – c’è chi monopolizza l’attenzione parlando a voce troppo alta, chi ride di un riso agitato, chi avrebbe urgente bisogno del bagno ma non osa dirlo e chi, in quanto ad autonomia, lascia a desiderare e ha bisogno di un familiare cui appoggiarsi.
Sono fatti così: sono pur sempre novellini. Insonni da ore.
Però, ci fosse un appello, nessuno risulterebbe assente. Tutti – accidenti alle apprensioni, sempre in agguato – provvisti di adrenalina nelle vene, ma sostanzialmente fiduciosi di essere all’altezza delle richieste.
Finalmente la porta si apre, lo sfarfallio di una mano, una voce – sembra accogliente: – Nonni, entrate: i bambini vi stanno aspettando!
E i nonni, sciolto velocemente questo raduno senza slogan e senza nulla da rivendicare – anzi mansueti – eccoli in fila davanti all’ingresso, pronti a rispondere a un invito che, se per alcuni ha cancellato lunghe liste di impegni, per altri ha dato una scossa a sequenze di cose noiose, di ore letargiche in case silenziose dove, prima di venir via, cani e gatti sono stati approvvigionati, le piante annaffiate.
Obbligatorio lasciar fuori il garbuglio di tanti fastidi da questo luogo dove a resistere ancora è la speranza nel futuro.
In attesa di sferrare baci e abbracci, nel corridoio gli sguardi vagano tra i disegni ripetitivi appesi alle pareti a cercare uno sgorbio, uno svolazzo – grandi soli da cui partono stecchi di arti – degli artisti di famiglia.
Accalcate all’ingresso dell’aula, faccine dagli occhi sfavillanti – piccoli arcangeli, qualcuno con la pelle scura, ma non sottilizziamo – sopra le quali al battaglione in arrivo sembra di vedere l’aureola circonfusa di luce. Al via libera, i piccoli franano contro i nonni, curvi come salici protesi, pronti ad assestare pacchette affettuose. Qualche bambino resta dentro il rifugio di mani impegnate a lisciare, ispezionare testoline: sembrano calde, non sarà meglio, a fine lavori, portarseli a casa? Altri sono fulminei nello sgattaiolare via: nessuna stretta può contenere tanta vitalità, pur se corrotta con una caramella estratta velocemente dalle tasche.
Ma per i nonni anche un abbraccio fuggevole a un corpicino burroso o uno scompiglio di capelli sono sempre meglio di niente.
Gli inconsueti ospiti vengono fatti accomodare, mentre ringraziamenti e convenevoli abbondano. Se i bambini scalpitano dietro significativi sbadigli, i nonni invece appaiono concentrati, silenziosi come avessero le arcate dentali incollate, immobili come colti da paresi in ascolto di fronte a un oracolo. A dir la verità qualcuno si accontenta della temprata gestualità dell’educatrice, poiché le parole annegano dentro brusii con cui han fatto a patti già da qualche stagione.
Agli invitati viene servito il caffè, bevuto acquattati su seggioline che sono un dileggio per arti anchilosati, sollecitano fitte alle ginocchia, ma dalle quali, come baroni rampanti, non vorrebbero schiodarsi, fosse per il resto della loro vita.
Dopo il caffè, tutti al lavoro! Con un camuffato stiracchiamento ginnico ci si alza.
Nella progettazione di un laboratorio tra generazioni diverse, le maestranze inizialmente avevano ipotizzato un’attività culinaria, con biscotti e dolcetti vari, ma come ammassare tutti in cucina? Decisamente meglio inventarsi qualcosa all’aperto con tanto spazio. L’educatrice campionessa di atletica, la quale aveva azzardato giochi con conseguente coinvolgimento sportivo, era stata prontamente stoppata dall’addetto alla sicurezza: chi li assicurerebbe quelli lì? e se cadono? l’osteoporosi la consideriamo sì o no? e con il cuore come la mettiamo…?
Seguendo il buonsenso, un laboratorio florovivaistico aveva ottenuto consenso e buona pace generali.
Passando dall’aula al giardino sul retro, il piccolo esercito procede seguendo l’educatrice come dietro a un generale. Pargoli che sanno camminare, saltare, azzardare il doppio salto, vengono acciuffati, sollevati neanche fossero trofei o bombe che a un tocco altrui possano esplodere, infine depositati sull’erba dove sono pronti vasi, semi, terra. Qui dove la truppa si rimescola, i nonni, anche se hanno dimestichezza nel piantare e coltivare, con dilettantesco appiglio e un fervore da neofiti si fanno insegnare le procedure. Sotto la luce, intercettata e trasformata nel suo rimbalzare tra il fogliame del tiglio, sopra sagome a capo chino, dentro la luminosità acquerellata di questa mattina, sembrano espandersi nuvolette come nei fumetti – cosa sia scritto non si sa.
Mani indaffarate sminuzzano, assestano, rimescolano. Una moltitudine di semi resterà a gonfiarsi nell’umidità della terra: cosa diventeranno si scoprirà solo in futuro. Un po’ come questi bambini: ci sarà chi fiorirà presto, chi un po’ più tardi. Chi avrà più bisogno di ombra e chi di luce. Chi cercherà protezione sotto un albero, chi non la cercherà.
Già impazienti, i piccoli si sparpagliano, sembrano volare, saltare invisibili pozzanghere, in una coreografia dove ognuno è un solista. Nel giardino dell’asilo la vicinanza di due stagioni della vita estreme, senza che la parte di transizione abbia voce in capitolo. Quando questi intrecci perfetti di capelli diventeranno magari di color viola, i disegni pieni di giallo saranno spiazzati con cartelli fuori di una camera con la scritta di tenersi alla larga, una risata e un abbraccio sbaragliati da risposte strappate con fatica e abbottonate, forse, di questo tempo, i nonni non faranno più parte: per loro, come certezza, l’incertezza del futuro. Intanto si accaparrano fossette sulle guance e occhi affamati di sorprese, la dolcezza di momenti che scivolano via in fretta, le stagioni che si rincorrono – era gennaio ieri e oggi è già aprile – imbavagliando attimi da immagazzinare come riserva, da ripescare in momenti di vuoto, o come cura ad addolcire qualche rimpianto.
Sapendo che anche questo sarà uno dei ricordi che col tempo si deformeranno e si sovrapporranno ad altri.
Come abbiamo potuto verificare una testimonianza così?
Sarà poco lusinghiero, però sì, c’eravamo anche noi a farci un solletico al cuore, intrappolati dentro questa leggerezza zuccherosa, a dispensare carezze premurose e qualche parola appiccicosa.
Ma è solo un trascurabile dettaglio.