Foto color seppia

Lo straccio, passando sulla mensola, indugia sulle fotografie, quasi ad accarezzare quel protettivo velo di polvere che pochi giorni sono bastati a depositare.
Lo sguardo non dovrebbe fermarsi più di tanto: bisognerebbe andarci piano quando ci riserviamo il ruolo narrativo del passato. L’immagine di un volto, uno stimolo che proietta all’indietro, diventa cascata incontenibile, pericolosa.
Le sposto con cautela, le accosto a piacimento, cambiando posizioni, prossimità, il contatto tra l’una e l’altra, quasi – irragionevole la presunzione – potessi rimuovere destini: vivi coi morti, chi porta ancora luce ai miei giorni vicino a chi è in un’altra dimensione.
O, forse, solo dentro i miei pensieri scomposti.
La luce, entrando dalla tenda scostata, arriva riluttante negli angoli, ma bersaglia l’argento di una cornice, diventa un’esplosione generosa, una lama di arcobaleno prolungata nello spazio della stanza.

La cornice ovale custodisce la foto di due bambine – un caschetto di capelli castani l’una e un groviglio di capelli biondi l’altra – ancora attaccate ad un mondo di fiaba, di gnomi e di fate. Le braccia: quattro tentacoli avviluppati tra loro.
Lo sfondo sfumato dal tempo, un impasto di celesti, non può testimoniare se sia mare o cielo: a farlo è il mio ricordo – quel giorno erano arrivate lì, sulla cima della montagna – il viso sorridente indizio della conquista dopo la fatica.
Si fanno strada vibrazioni sottili e una leggera vertigine; sembrava non potessi amarle di più, ma forse potevo amarle meglio dentro il mio tempo ingombrato dal continuo bisogno di affrettarsi, di correre dietro a cose che ho imparato a sminuire. E si vorrebbe dare un pezzettino della vita che rimane per ritornare indietro – basterebbe un giorno, un giorno solo – rivedere carta colla penne giochi sparpagliati, due grembiulini pronti, avere la casa piena di loro.
Il passaggio all’adolescenza saltato; dentro una cornice più grande sono direttamente in abito bianco, il sorriso radioso teso verso altre direzioni.

Sono perlopiù foto datate queste sopra la mensola: chi è venuto al mondo di recente – sembrava inopportuno non ci fosse – ha avuto in prestito solo un angolo dentro le cornici più grandi, un rettangolino di fototessera che si perde sopra un abito da sposa, un prato, un giardino. Altre – infinite, con il volto felice di chi gioca, parla, mangia, con la bocca impiastricciata, o colto con lacrime momentanee – hanno tutto il loro spazio in una dimensione provvisoria dentro il telefono: un tocco distratto e possono sparire.

Queste, incorniciate, sono un film muto in cui ripescare immagini vacillanti, dentro cui ritrovare mutevoli spezzoni di trame dettate dallo stato d’animo del momento, copioni ingannevoli costruiti con ciò che ricordo o mi sono raccontata. Frammentati in dettagli.
Di qualche persona sono rimasti solo quelli poiché la sensibilità diminuisce, si opacizza.

Tanti di questi volti non ci sono più. E quello che inizialmente si definiva dolore ha preso un nome diverso: magari rimpianto, quello che riesce ancora a sgraffignare un po’ del tempo di chi resta.
Per qualcuno di loro andarsene è stato scioglimento da tanto affanno; per chi rimaneva sempre uno stridore. La perdita di ognuno – mancato quando le giornate si stiracchiavano promettenti verso l’estate proprio mentre la vita dovrebbe esplodere, o nei giorni scarni dell’inverno, come se, in assenza di colori, fosse più facile la consolazione – ha chiesto un riposizionamento, la ricerca di un nuovo modo di essere, nella zoppia in cui ci si è ritrovati.
Spazi vuoti da nutrire con sforzi meticolosi ad ogni distacco.

Un posto qui sulla mensola è per lei che ha lasciato un mulinare sordo dentro stancanti sforzi di introspezione: si sarebbe potuto fare di più? Avrei potuto armarmi di comprensione di fronte al barcollare della vita invece di navigare dentro quell’impazienza irrequieta. Però qui, in questa fotografia, ha ancora lo sguardo limpido: eccola orgogliosa nel tenere in braccio i nipoti in una presa salda. Poi, quando è iniziato tutto? Non ci sono foto a testimoniare quel tempo senza nozione di tempo quando la malattia l’ha afferrata come una piovra.

Se indugio a guardare un’altra foto, un altro viso, arriva la risata. La sua risata al telefono, una nota lunga; l’inflessione della voce anche col passare degli anni era rimasta carezzevole, senza il tono crepitante, arrochito delle persone anziane. Un misto di leggerezza e ragione, caratteristiche che difficilmente vanno a braccetto; con l’ultima affrontava i problemi pratici, con la prima spianava, dissolveva; ai suoi occhi ogni persona non era mai un esemplare difettoso, ma aveva qualcosa che la faceva splendere. Capita ancor oggi di interrogarla passando vicino alla foto: vorrei risentire le sue parole che aprivano spiragli, sapevano sfondare il muro di problemi, nel mio perenne apprendistato della vita.

Le dispongo allineate, qualcuna traballante nel suo equilibrio instabile accostata ad un’altra dal supporto rigido, apro le finestre ora che la luce è piombata in ogni angolo, richiudo la porta della stanza, le lascio lì fino alla prossima volta, fino a quando avrò ancora bisogno di annaffiare una memoria inaffidabile o addirittura sleale, mendicare pezzi di vita.
Restano ricordi da lasciar svanire come un profumo nell’aria, racchiusi dentro una cornice, in tinte amalgamate nelle calde tonalità di seppia.

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