Feroce, il sole si riversa sull’asfalto che lo amplifica e lo rigurgita.
Subdole, le gocce di sudore, dal viso s’insinuano nel collo, si diramano, s’infiltrano in ogni parte del corpo. Tra il pubblico venuto ad assistere alla rievocazione storica, Eugenio scarta a destra, a sinistra, alla ricerca di refrigerio all’umidità che ispessisce l’aria – magari l’ombra di un platano – ma la vista del mantello di zibellino del figurante che sta sfilando in quest’istante acutizza il senso di calore.
Eugenio aspetta solamente che si tolgano le transenne per allontanarsi dalla parata; si è fermato giusto giusto perché la strada era bloccata.
Con sguardo appannato dallo sfarfallio dei raggi del sole, segue il serpentone: nobili, musici, servi, tutti di profilo senza che se ne inquadri lo sguardo; solo due marmocchi su un carretto, seduti sul fieno, fieri di una postazione tanto inconsueta, si guardano curiosamente intorno.
Il timbro potente del corno, seguito dal rullo dei tamburi o da uno squillo di tromba emerge ogni tanto ad annientare le suonerie metalliche dei cellulari, le chiacchiere della gente e gli strilli dei bambini assiepati lungo il viale. Eugenio, non senza un certo cinismo, pensa che dei destrieri sbuffanti o una cavalleria nemica sarebbero il quadro perfetto per appesantire ancor di più l’aria intorno.
Un altro stendardo che preannuncia un’altra contrada: dentro abiti sfarzosi, avanza un gruppo compatto di nobili – uomini e donne – e ogni tanto uno di essi azzarda un inchino.
Ed è nello stesso istante in cui una delle figuranti gira la testa di tre quarti e, tra i barlumi del sole, mostra un’espressione angelica, teatrale, come si addice al ruolo impersonato, che qualcosa preme, repentino e inaspettato, sul cuore di Eugenio.
E’ mai possibile? Ma sì!
I capelli intrecciati, di un biondo che vira al castano, il gesto aggraziato del braccio, sotto l’imbottitura morbida delle maniche, il lieve ondeggiare nell’andatura, la postura eretta e sensuale, anche se imprigionata in un un corpetto con i lacci. Dallo strascico dell’abito impreziosito di perle, spuntano scarpette di seta rosse; oh, come non riconoscere quel modo elegante di appoggiare i piedi neanche dovessero toccare terra!
Tutto ridesta sensazioni sopite.
Una storia cui avevano provato a credere tutti e due, anni addietro – e ne erano passati – esaurita tra indecisioni e qualche rancore, nel tentativo fallito di amalgamare due caratteri.
Quando ognuno aveva preso direzioni opposte, pochi i dubbi rimasti, scarsi i rimpianti.
Sotto il sole che investe, cattura e intrappola i pensieri, Eugenio scorda di non essere stato stritolato dalla sua perdita, di non essersi sentito un acrobata su una corda tesa pronta a cadere al minimo soffio di vento. Neanche la tristezza, quella che, alla fine di una relazione, come una marea, arriva a increspature tali da formare un cavallone, era venuta a lambirlo.
Davanti a qualche fotografia scolorita, finita in fondo a un cassetto, gli era capitato di chiedersi che fine avesse fatto, ma la sua immagine era già un ricordo evaporato; il posto di lei semplicemente occupato da qualcun’altra.
E ora, nello stordimento del caldo implacabile, un impeto incosciente la fa diventare ciò che mai era stata, neanche un tempo avesse rappresentato un riparo, per lui cane randagio.
Mentre la parata incalza, Eugenio strizza gli occhi, allunga il passo facendosi strada a gomitate tra la calca. Non gli importano gli sguardi freddi o le insolenze percepite, mentre la insegue nel suo apparire e sparire nel gruppo serrato dei figuranti: che sia più avanti, oppure l’ha superata?
In ogni caso il richiamo – è il suo nome quello che pronuncia, o ne esce solo un monosillabo privo di senso? – senza intercettare minimamente il serpentone, si perde tra i rulli di tamburi.
Se riuscisse a fermarla, magari…se le parlasse, allora… se …
Il corteo si incanala in direzione della piazzetta dove un ammasso di sagome colorate si ferma ad accogliere gli ultimi, negligenti applausi del pubblico tra il luccichio e i bagliori del sole che flagella il corpo, prima di sparire dentro a un edificio, dove alla folla non è permesso entrare. Eugenio si appoggia a una transenna, mentre il corpo si spacca in due all’altezza della vita. L’affanno per aver mantenuto un passo che non gli si addice, il male al fianco da togliere il fiato, i piedi pulsanti dentro le scarpe non sono sufficienti a farlo soffermare su quanto si siano accumulati gli anni.
Ma ora deve solo aspettare, intercettarla quando uscirà: non può perdere l’occasione, lasciarla andare. Anche se annaspa alla ricerca dei ricordi sfumati dal corso degli anni, dice a se stesso, quasi commosso, che lei non poteva riapparire nella sua esistenza se non in veste di regina.
Dopo un lasso di tempo, a gruppi, smessi gli abiti della parata, flussi vocianti ed esuberanti di persone si riversano nella piazzetta.
Non più gli scarpini di seta, ma Converse ai piedi: un gruppo di ragazze, immerse in un eloquio intraprendente, gli passa vicino.
Eccola! Lo stesso passo leggero, quasi saltellante, intrappolato in un paio di jeans, i capelli liberi in una massa scarmigliata, non più imbrigliati in una treccia, a cingere un volto giovane, fresco sul quale Eugenio indugia a divorare dettagli nuovi. Che si rivelano però essere solo la proiezione pregevole di qualcosa conosciuto tanto tempo prima.
Ad un tratto la ragazza si ferma, si volta guardando un punto distante, sfoderando un sorriso, alza il braccio in segno di richiamo, quindi porta le mani a cono per sovrastare i rumori intorno:
– Mamma, sono qui!
Mamma?
Chissà quante volte le avranno detto che somiglia a sua madre da giovane?
Eugenio si ripiega, quasi si avvita su se stesso. Complice quel sole addosso, è stata un’immensa burla a far dissotterrare, corteggiare una menzogna del passato.
Lui non si volta, lo sguardo a terra come cercasse qualcosa, di sicuro non colei per cui si è tanto affannato prima. Dopo aver pensato di incontrarla da regina, che senso avrebbe trovarsi di fronte a un viso devastato da anni che pesano, dai tratti induriti, a un corpo fragile?
– Vattene e scrollati di dosso il senso del ridicolo – intima a se stesso.
Soprattutto, dopo essersi cucito addosso una favola inesistente.
Alla ricerca di un angolo che offra una frescura miracolosa, Eugenio si allontana.
Alle sue spalle la scena sfocata: il campo lunghissimo di un film dove due donne, fantocci indistinti, sono in procinto di uscire dall’inquadratura.
Come colonna sonora l’eco di una vibrazione: probabilmente è un bambino che si è impossessato di una tromba e lascia nell’aria stagnante solo una nota, una nota stonata.