“Giuseppe” – Michele Comper


Voto: 5 stelle / 5

Il romanzo “Giuseppe” segna l’esordio sulla scena letteraria di Michele Comper. Classe 1967, trentino giornalista, già collaboratore del quotidiano “L’Adige”, Comper si definisce un «lettore e rilettore di romanzi classici». Proprio dalla sua passione per i classici nasce “Giuseppe”, il suo primo libro.

Il tema del senso di colpa, nella letteratura contemporanea, è stato declinato secondo due schemi. L’uno, riconducibile a Dostoevskij: la colpa cerca il castigo. L’altro a Kafka: il castigo trova la colpa. Nel libro di Michele Comper, “Giuseppe” (Catanzaro, la Rondine edizioni, 2020, pp. 192, € 14,90), invece, c’è la colpa senza più il castigo.

La genesi del libro

L’autore, in un’intervista, ha affermato che l’idea del romanzo è nata da una riflessione su “Il processo” di Franz Kafka. Come è noto, il libro dello scrittore boemo narra la vicenda di Joseph K., arrestato e processato per motivi misteriosi da una autorità imperscrutabile.

«Quello che è accaduto a Josef K. – scrive Comper – oggi non potrebbe ripetersi, e mi sono chiesto come sarebbe quella storia oggi. Al contrario, ho pensato: oggi Joseph K. sarebbe un colpevole a cui la giustizia non sarebbe in grado di dare una condanna, omettendo di sgravarlo dal peso della colpa e in questo condannandolo».

“Giuseppe”, dunque, è un remake capovolto nella traiettoria e simmetrico nell’esito de “Il processo”. Se l’alter ego di Kafka, l’innocente Joseph K., è stato vittima di una giustizia onnipotente, quella dell’epoca dei regimi totalitari, il colpevole Giuseppe, protagonista dell’omonimo romanzo, lo è di una giustizia impotente, quella dell’epoca dell’individuo.

Trama di Giuseppe

L’autore sviluppa con efficacia questa idea nella trama del libro, la cui struttura risulta ben organizzata e coerente. Ne viene fuori una metafora ironica e spietata della nostra società. Il racconto è ambientato in un futuro prossimo, dove la realtà è sempre più mediata da uno schermo, i media, la rete e gli algoritmi sono sempre più presenti e determinanti nella vita delle persone. Il protagonista, Giuseppe, di professione orafo, è schiacciato dal senso di colpa per aver ucciso accidentalmente un uomo. Credeva fosse un rapinatore. Ma si sbagliava. Il tragico equivoco scatena in lui un forte senso di colpa. La polizia non lo arresta, non lo porta nemmeno in questura. Non accade nulla che lenisca in qualche modo il suo rimorso. Che pian piano lo rode nella mente e nel corpo. Per contro, alcuni personaggi cercano di trarre profitto dalla tragedia in vari modi.

Per esempio, Marietto Charlot, un artista di strada, è pronto a fornire agli inquirenti una versione dei fatti che scagioni del tutto Giuseppe, in cambio dell’esclusiva per le interviste sui media. Spera di ottenerne la visibilità necessaria a far decollare la sua (fino ad allora) modesta carriera artistica. Un sedicente giornalista a caccia di storie lo intervista al tavolino di un bar per ricavare un articolo appetitoso e avvincente per i suoi lettori. E poco importa se i fatti ne risulteranno stravolti. La storia dell’omicida che desidera un processo per levarsi di dosso la colpa («Sì, ma subito – dice Giuseppe – non fra due anni o dieci, e senza clamore, con rispetto») è sufficientemente intrigante. Così il giornalista se ne va per mettersi subito al lavoro. Ma intanto gli lascia il conto del bar da pagare. E mentre si allontana, se la ride, lasciando nel lettore il dubbio che si tratti soltanto di uno scroccone. Un procuratore di gente dello spettacolo gli propone un contratto per una nuova carriera: il video dell’omicidio, con il volto spaurito di Giuseppe, ha fatto il giro del web. Milioni le visualizzazioni. Potrebbe essere l’inizio per affermarsi sui social, grazie ai servizi dell’agente procuratore. Ma il protagonista non si piega alle logiche di spettacolarizzazione della società.

Lo spettacolo del dolore in Giuseppe

La critica della società dove tutto è spettacolo raggiunge esiti stranianti e paradossali nel capitolo intitolato Funerale. L’ultimo saluto all’estinto va in scena in una sorta di studio televisivo, in diretta tv con il pubblico (parenti, amici, conoscenti, curiosi) in studio. La scenografia, la regia, un figurante vestito da Morte con la falce, la presentatrice che intervista i parenti, la bara al centro che esce dal tetto apribile in un fascio di luce, tra uno spot pubblicitario e l’altro, porta alle estreme conseguenze la spettacolarizzazione del dolore. «La morte attrae tantissimo, è l’unica cosa forte che ci sia rimasta, a noi dello spettacolo», dirà la maschera che accompagna Giuseppe al suo posto tra il pubblico. Nell’opera è indagata anche l’accettazione da parte degli altri personaggi delle nuove logiche della società, rispetto alla quale la coscienza del protagonista risulta refrattaria.

Giustizia “virtuale”

L’autore, con fine ironia, passa in rassegna le tappe del percorso di Giuseppe per liberarsi dalla colpa. In tribunale, il processo tradizionale è stato sostituito dal processo digitale. In pratica, un software giudica sulla base di un algoritmo e commina all’imputato la pena. Il carcere esiste solo in teoria. Ormai le pene sono solo pecuniarie: «Senza soldi sei morto, con tanti soldi sei un dio, ergo: la giustizia non può che andare a parare lì». Giuseppe potrà estinguere il suo debito con la giustizia, è il caso di dire, in comode rate mensili. Se poi si rivolge a un avvocato, può riuscire a bloccare tutto per anni nel pantano della burocrazia.

Nemmeno la confessione religiosa, resa non più dinanzi a un sacerdote nella penombra di un confessionale ma pubblicamente alla comunità ecclesiale che si dichiara incompetente per i peccati mortali, sarà in grado di dare sollievo al suo senso di colpa. Il protagonista, dopo una visita sulla tomba dell’ucciso, finirà sotto un’auto. Il senso di colpa non si estinguerà con la sua morte ma si trasferirà al suo investitore. Come in un loop esistenziale dove la fine e l’inizio coincidono.

Inpress

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