“Il padrone” – Goffredo Parise


Voto: 3 stelle / 5

“Il padrone” di Goffredo Parise (1964), scrittore e giornalista attivo nel secondo Novecento, è costruito sul rapporto tra dipendente e padrone. Un rapporto di sudditanza psicologica: un impiegato diventa succube del suo capo e non solo sul piano professionale.

La specificità di questo testo, convenzionalmente ascritto nel romanzo industriale, è la causa dell’alienazione che non è un effetto collaterale del lavoro.

Affinché emerga l’originalità del testo di Parise, occorre spendere due parole sul romanzo industriale che, in relazione al boom economico del Secondo Dopoguerra, analizza da diverse angolazioni il nesso uomo-lavoro.

Quattro gli esempi. In “Donnarumma all’assalto” del 1959 Ottiero Ottieri mette a fuoco lo scontro professionale ed umano tra chi è preposto ad esaminare le attitudini dei candidati e chi un lavoro lo pretende, indipendentemente dalle competenze richieste. Sullo sfondo il dramma della disoccupazione nel Mezzogiorno.

In “Memoriale” del 1962 Paolo Volponi condanna l’alienazione della società capitalista con la parabola di un operaio bornout. Un posto particolare è occupato da “La chiave a stella” di Primo Levi, Premio Strega 1979, in cui un operaio altamente specializzato gira il mondo per rimediare agli errori altrui nell’edilizia civile e industriale. Faussone, questo il suo nome, ritiene che il lavoro consenta la realizzazione personale. Faussone ha committenti, padroni nessuno.

“Acciaio” di Silvia Avallone del 2010, recente epigono di questo filone, accentua il lato esistenziale rispetto a quello lavorativo.

Trama de Il padrone

Un ventenne “puro e intatto”, voce narrante, si trasferisce dalla provincia in una metropoli per lavorare come progettista di vendite in una ditta commerciale diretta in toto dal dottor Max, anche se sulla carta il padrone è il dottor Saturno, padre di quest’ultimo.

Fin dall’esordio il ragazzo dichiara il suo orgoglio carico di aspettative: il lavoro gli permetterà di diventare adulto, in grado di provvedere alla propria famiglia in un futuro prossimo; in uno lontano agli anziani genitori che tanto si sono sacrificati per farlo studiare. Soprattutto sta per inserirsi in una nuova comunità che, sola, gli garantirà il suo posto nel mondo.

Desidero sottolineare che il neoarrivato, appena saluta l’usciere, percepisce l’estraneità del suono della sua voce. Un indizio importante per fissare il termine a quo del processo di alienazione. Il protagonista, la cui spersonalizzazione è marcata dall’assenza del nome proprio, organizza una routine quotidiana che Parise registra con una minuzia asettica dall’effetto straniante.

Entra in contatto con sottoposti, colleghi, segretarie e superiori in una ditta dai contorni evanescenti prima percepita come “tempio”, poi come unico scopo che fagogita il tempo dello svago, infine come “trappola mortuaria”. La ditta, infatti, come la serra affastellata della moglie del patriarca dottor Saturno arresta lo sviluppo naturale dello slancio professionale dei dipendenti, di cui non viene mai specificata la mansione. Ammesso che ci sia. Anche il neo assunto non fa né vendite né progetti, eppure non si sente demansionato, anzi.

Proprio questo è il cuore del romanzo: la realizzazione esistenziale coincide con una reificazione volontaria conforme alla volontà del dottor Max, il padrone. Il giovane è felice di essere un oggetto che viene usato, la sua vita appartiene alla ditta, l’anonimia gli dá sicurezza. Agghiacciante la virata eugenetica in prossimità della conclusione.

Recensione

Il realismo insito nel romanzo industriale qui cede il passo al grottesco zoomorfico, si stempera nella bidimensionalità onomatopeica del fumetto, viene sgretolato dall’assurdo.

Il portiere ha “una natura scimmiesca” e l’usciere la voce simile ad “uno squittìo”. Il dottor Diabete quando non riesce a frenare la tosse da tabagista incallito “guaisce” con “gli occhi di una rana”. Il subdolo Bombolo dalla risata come “un nitrito” presenta la fisicità infantile del clown e del fumetto. Anche Minnie si muove e si esprime come un cartone animato. Il grafico pubblicitario Orazio, abbigliamento da gondoliere e gestualità da guitto, possiede “uno sguardo porcino”. Il padrone – dottor Max, postura e voce da insetto, ha le mani avvizzite come “le zampe di un uccello”.

Quando il corpo si ribella

Un ventaglio di malanni affligge tutti i dipendenti, eccetto il protagonista l’unico pienamente realizzato sia nel non lavoro, sia nell’alienazione volontaria. Una favola tristissima Il protagonista sente di essere e vuole essere una proprietà del padrone come un oggetto di arredamento.

L’alienazione volontaria distingue il romanzo di Parise anche dalla coeva poesia di Pagliarani “La ragazza Carla”, interessante prova in versi sull’alienazione professionale.

Echi e modelli

“Il padrone” di Goffredo Parise è un romanzo ostico e strano nella narrativa italiana poco incline all’onirico e al grottesco. L’atmosfera simbolica richiama Buzzati; il rapporto con l’Autorità impone un confronto con Kafka; la logica del non sense e del paradosso che anima la sulfurea consorte del dottor Saturno, mi ricorda Jarry. Questa favola allegorica a tema chiama in causa anche “Candido” di Voltaire, benché gli spazi aperti tra Vecchio e Nuovo Continente, la molteplicità delle avventure in progressiva accelerazione e la proposta positiva di un’ipotesi di vita siano estranei all’orizzonte di Parise.

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