L’uomo con un occhio solo
Sanshiro Kurenai è il protagonista della serie di ventisei episodi Judo Boy il cui titolo originale è Kurenai Sanshiro.
Suo padre è il titolare della rinomata scuola di judo Kurenai. Muore durante un combattimento contro un misterioso avversario del quale si sanno due cose soltanto: ha un occhio di vetro (perso durante lo scontro) ed è «invincibile». Tanto che il padre morente esorta Sanshiro a non cercarlo. Inutilmente, perché il ragazzo decide di partire con la sua moto rossa alla ricerca del presunto assassino, ribattezzato «l’uomo con un occhio solo». Gli fa da “aiutante” il piccolo lustrascarpe Ken accompagnato da Bobo, un buffo bassotto con tanto di berretto in testa: a lui vengono affidati i momenti comici.
Sanshiro (o San, come lo chiama Ken) è un “orfano totale”. La madre non c’è più da tempo. Lo capiamo da alcuni flashback disseminati qua e là. Per il resto, di lei non ci viene detto nulla. Il padre non facciamo in tempo a conoscerlo che esce di scena: ci lascia, infatti, all’inizio del primo episodio. La sua presenza nei ricordi del figlio è occasionale. Eppure è lui la molla (o il pretesto) della vicenda. Il ragazzo, infatti, gira per il mondo alla ricerca dell’uomo che l’ha ucciso. Vuole trovarlo e farlo a fettine. Vendicare la morte del genitore è l’ossessione che assorbe ogni suo pensiero. Non pensa ad altro, un po’ come quegli sportivi che hanno in testa soltanto la vittoria finale e perdono di vista tutto il resto.
La struttura della serie Judo Boy
La struttura di Judo Boy è semplice. I ventisei episodi sono tutti autoconclusivi. Fanno eccezione soltanto il 20 e il 21, unico caso di storia divisa in due parti. Lo schema è sempre il medesimo. Sanshiro arriva con la sua moto nella città (o nel villaggio) di turno. Lì conosce una ragazza che scopre essere in grossi guai. Questo comporta un mistero da risolvere (la cui soluzione è praticamente telefonata) e la presenza di un “cattivo”, che non è detto debba essere per forza guercio, anche se la maggior parte delle volte lo è. San è un impulsivo, ma il suo innato senso della giustizia lo porta ad immischiarsi per aiutare la fanciulla in difficoltà. Dopo qualche scaramuccia, si arriva alla resa dei conti.
Il combattimento finale è preceduto dal rito della vestizione: Sanshiro indossa il proprio kimono rosso da judoka (spesso lanciatogli da Ken), ogni volta (o quasi) con le stesse mosse, e gli stessi effetti sonori. Questa sorta di uniforme, che lo distingue da un comune praticante di judo, è come la pozione magica di Asterix, ma con un curioso effetto collaterale: scarpe e calze scompaiono come per magia e Sanshiro si ritrova a piedi nudi. Possiede anche un forte valore affettivo: uno dei ricordi del ragazzo ci rivela che gliel’ha cucito la madre.
Dopo la sconfitta dell’avversario arriva il momento di salutare la ragazza (che, purtroppo, in un paio di casi muore tra le sue braccia). Il viaggio deve continuare. Sanshiro viene inquadrato sulla moto in compagnia di Ken e Bobo. La voce fuori campo della narratrice riassume la “morale della favola”, concludendo con una domanda tipo «Dove andrai?» oppure «Troverai l’uomo con un occhio solo?» e il solito augurio: «Buona fortuna, ragazzo dello judo!».
Il percorso di maturazione di Sanshiro
La storia è costruita su un tema narrativo molto sfruttato nei cartoni animati giapponesi: il viaggio alla ricerca di una persona o di un oggetto. In ciascuna tappa, il protagonista si confronta con altri personaggi che poi non rivedrà mai più. L’uomo con un occhio solo, però, è un pretesto. Al centro della serie c’è il percorso di maturazione compiuto da Sanshiro. In realtà, lui cerca se stesso. Secondo il Bushidō, il codice d’onore dei samurai, soltanto sconfiggendo noi stessi possiamo battere il nostro avversario.
In quest’ottica assume grande importanza l’episodio numero 20, citato prima: San incontra un ragazzino indiano che intende vendicare la morte del padre, ucciso da una tigre ferocissima e (guarda caso) guercia. L’odio di cui è saturo è testimoniato dalla frase: «Solo quando starò per morire dirò di aver perso». Parole che costringono il nostro judoka a riflettere. Già nel primo episodio gli viene detto: «Conosci la posizione, ma il gesto è vuoto: non c’è spirito combattivo». In un’altra occasione assistiamo a un dialogo come: «Voglio vendicarmi». «Allora hai già perso. Ti manca la pazienza».
Alcune delle persone che incontra nel suo viaggio, insomma, cercano di aiutare la sua crescita interiore. Un vecchio taglialegna riassume a suo (e nostro) beneficio uno dei principi su cui si basa la formazione del samurai: forza fisica e abilità non sono sufficienti. Bisogna sempre prepararsi alla mossa successiva con pazienza e prudenza. In altre parole, ci vuole concentrazione.
Sanshiro, però, a un certo punto si sente dire qualcosa che sembrerebbe quasi voler vanificare il lavoro che lui, consciamente oppure no, sta faticosamente compiendo su se stesso: «Il triste destino di un lottatore come te è quello di misurarsi combattendo continuamente con altri uomini». Non è mica una roba da poco. Da un lato, riceve consigli finalizzati a migliorarlo come uomo, oltre che come guerriero. Dall’altro, una persona lo mette davanti a una realtà inesorabile, che non si può certo ignorare. Il suo destino, come quello di tutti i guerrieri dei cartoni animati giapponesi, è uno solo: confrontarsi e scontrarsi con altri esseri umani. È come obbligato a combattere. Tutto sta nel riuscire ad accettare con (relativa) serenità questo obbligo e a conviverci.
Un finale aperto
La conclusione della serie è quanto di più nipponico si possa immaginare. Sanshiro questo benedetto uomo con un occhio solo non lo trova. Nell’ultimo episodio, uccide incidentalmente il padre d’una ragazza, la quale cerca subito di fargli la pelle per vendicarsi, anche se non trova il coraggio di andare fino in fondo. La sua condizione è molto simile a quella del nostro judoka, il quale finisce per capire molte cose. Sia chiaro: la ricerca del guercio non termina, né s’interrompe. Al contrario: continua con uno spirito nuovo. L’obiettivo non è più la vendetta, bensì uno scontro leale. Il sipario si chiude sul proposito espresso da Sanshiro, in sella alla solita moto rossa insieme agli inseparabili Ken e Bobo: «Mi allenerò finché non diventerò il più grande combattente di judo al mondo». È un epilogo frustrante, perché il pubblico italiano si aspettava lo “scontro finale” con il misterioso assassino del padre. Però ha senso, poiché il cartone animato si propone in fondo di descrivere la maturazione di un ragazzo che finisce per abbandonare l’idea della vendetta.
Sanshiro non ha soltanto un forte senso della giustizia. Come ogni guerriero che si rispetti, crede profondamente nell’amicizia. Per un amico farebbe di tutto: perfino mettere a repentaglio la propria vita. In un episodio offre se stesso come garanzia ad una specie di mafioso, per aiutare un ragazzo che nemmeno conosce. Il beneficiario, dapprima pensa di scappare lasciandolo nei guai. Poi ci ripensa, colpito dalla fiducia di cui si sente investito, e corre a salvarlo.
Qualche inverosimiglianza c’è, eh. Non riguarda i combattimenti, che in fondo risultano ragionevolmente realistici, né la vicenda, che in sé non ha nulla di assurdo (chiunque desidererebbe vendicare la morte del padre). Sanshiro viaggia per il mondo con la sua moto rossa… che ogni tanto scompare. Riappare come per magia nell’episodio seguente. O si tratta di un’assurdità, oppure l’ordine cronologico della serie è stato stravolto dagli adattatori italiani. La cosa più strana, però, è un’altra: Ken e Bobo non sono motorizzati. Il loro principale mezzo di locomozione sono i piedi. Ma allora come fanno a star dietro a Sanshiro e, soprattutto, a ritrovarlo quando si separano? Non lo sapremo mai…