Vule Žurić è uno degli autori più prolifici e importanti del panorama letterario serbo. Autore di racconti e di romanzi, è fermamente convinto che uno scrittore, per definirsi tale, debba saper scrivere i racconti brevi, debba avere la capacità di raccogliere le storie, le emozioni e le sensazioni in poche pagine. Lo incontro a Pančevo, la piccola cittadina in cui vive, a trenta minuti da Belgrado. Ed è in un bar che profuma di romanticismo, che mi parla della sua scrittura e di pezzi della sua vita.
Tu dici che “Il racconto sta al romanzo, come un povero operaio sta al padrone dell’industria”. Cosa significa?
Non mi ricordo di aver detto questo, deve essere una vecchia traduzione. Bellissima, comunque.
Ti chiedo, allora, qual è, secondo te, la differenza tra racconto e romanzo.
Il racconto è una “prova di mestiere”, se non riesci a scrivere un racconto di tre o quattro pagine e a non inserire tutto il mondo in queste poche pagine, credo che mai potrai essere uno scrittore. D’altra parte, per me, il romanzo è un raccoglitore di idee, soprattutto di quelle che si formano nel mondo linguistico di un racconto. Io ho scritto il mio primo romanzo a Pontedera nel 1999, quando ero ospite in Italia, in una città dove sono stato accolto molto bene, fatta di gente brava e buona. Una città priva di turisti, come Empoli per esempio, perché non c’è nulla da vedere. Ho scritto il mio primo romanzo lì, utilizzando il computer che mi è stato offerto dal Comune. Questa è stata la mia prima esperienza legata a uno scritto che ho impiegato sei mesi a redigere. Io ho sempre scritto racconti di tre o quattro pagine, o al massimo di dieci pagine. Nei prossimi giorni scriverò un racconto breve, per una rivista che pubblica a Belgrado: mi hanno detto che ho disposizione solo diecimila caratteri, quindi al massimo deve essere lungo tre o quattro pagine. Io, però, adesso vorrei provare a scrivere un romanzo su Sarajevo, su tutto quello che è successo in quella città, lungo quattrocento, o al massimo cinquecento pagine. Credo anche che in qualche modo, queste quattrocento pagine, possano starci in quattro: basta mettere dentro tutto l’essenziale. Quando scrivi un racconto breve, è importante il ritmo, la melodia della lingua, sapere da quale punto della storia si deve cominciare e avere sempre un giudizio obiettivo. Senza tutte questi elementi, non si può scrivere un buon racconto corto. Non bisogna dimenticare che anche il titolo ha la sua importanza. In verità, la mia prima collana di racconti corti, che è uscita nel 1991, ha un titolo che non ha alcuna relazione con l’oggetto del contenuto, ma mi piace l’idea che da, di una poetica speciale. Le narrazioni sono dedicate in parte alla gente comune, in parte a personaggi storici e altri a personaggi della letteratura. Nel mio ultimo libro ci sono i racconti su Ivo Andrić, per esempio e tanti altri. Sono tutti personaggi interessanti, non solo per il loro ruolo nella letteratura e nella storia nazionale, ma anche per la loro storia di vita, che ho trovato in tanti vecchi libri, quelli che adesso si chiamano “trivie”. Cerco di trascrivere narrazioni da leggere, che fanno sorridere, con qualche parte drammatica. Quando scrivo un racconto corto, cerco di trovare sempre il capo della storia, da dove cominciare, voglio sentire il ritmo -io sono molto musicale-, perché credo che tutto si trovi nella sonorità. Mi piace gestire al meglio le mie idee e averne diverse: io scrivo sceneggiature, scrivo saggi e articoli regionali, ma il racconto è quello che mi riesce meglio.
Comicità, gergo e slang, caratterizzano la tua scrittura. A chi devi il tuo stile?
Quando avevo vent’anni, per me, come per tutti i giovani della Jugoslavia, c’era Charles Bukowski, a cui fare riferimento, ma anche tanti russi. Quindi c’erano tante influenze. Io scrivo da più di trent’anni, oggi ho cinquant’anni e penso che senza l’influenza di altri scrittori non si possa essere originali. Io desidero essere influenzato da menti geniali, ma anche da quella letteratura che non è proprio di qualità, dalla quale si può trarre un insegnamento differente: quello che non si deve fare. Io ho voluto scrivere sulla gente comune e naturalmente anche su coloro che non hanno istruzione e loro ovviamente parlano nel mio libro, come si esprimono nella quotidianità. Potrebbe quindi sembrare uno scritto di scarsa qualità, ma in realtà non lo è. Io amo molto scrivere i dialoghi: quando ero piccolo, saltavo tutte le descrizioni, per leggere solo i botta e risposta. Per scrivere un buon dialogo, per far sì che sia molto simile a quello parlato, bisogna avere una certa esperienza. Non è semplice, infatti. Se, per esempio, trascrivi una registrazione, parola per parola è un conto, se invece devi mettere un dialogo in un libro, allora è un’altra cosa, perché lo leggi in maniera differente, perché hai una sensazione di autenticità differente.
Tu sei arrivato durante la guerra civile in Bosnia ed Erzegovina e questo sicuramente ha costituito per te un’esperienza di vita forte. Quanto queste sensazioni e questo vissuto hanno influenzato la tua scrittura?
Io ho scritto tanto di guerra: quando la guerra è iniziata io avevo ventun’anni e avevo già pubblicato la mia prima raccolta di racconti e avevo anche scritto una seconda raccolta, mai pubblicata, ma redatta più per esercitarmi. La guerra è iniziata, io ho letto tanto, perché non si poteva uscire: mia madre non era serba, mio padre era serbo, ma noi a Sarajevo, eravamo comunque i serbi. I serbi buttano le bombe sulla città e quindi per le milizie musulmane, tutti i serbi sono nemici. Io in virtù di questa esperienza, ho sentito che dovevo scrivere su tutto quello che avevo visto. Non volevo fare un diario, perché non rientra nelle mie corde, pertanto ho descritto tutto quello che ho visto, in uno strano naturalismo poetico e ho scritto il racconto Miss you, (inserito nella raccolta Casablanca serba a cura di Nicole Janigro, Feltrinelli 2008), che narra della mia visione e del mio vissuto durante la guerra. Protagonista è una ragazza che lascia la città, non c’è la guerra, ci sono gli uomini, ci sono le donne, c’è la pornografia della vita quotidiana e nient’altro.
Qualcuno afferma che la tua scelta di descrivere la guerra in questo modo, derivi dal fatto che non ami prendere posizione. È vero?
Io ho guardato alla vita della gente comune in quei giorni: la gente non aveva niente da mangiare, non c’era l’acqua, non c’era il riscaldamento, tutte le aspettative di vita dei giovani erano bruciate. In tutto questo ho cercato di essere il meno patetico possibile. Cosa abbastanza difficile non esserlo, perché la vita stessa diventa patetica. Circa quattrocento pagine di parole su tutti questi argomenti, scritte in circa un anno, un anno e mezzo. Sono tutte pagine dedicate alla guerra. Dopo ho pubblicato un altro libro “A letto con Madonna”, che nulla aveva a che vedere con la guerra cosa che la critica non ha ben accettato. Io ho sempre scritto di guerra e di emozioni, ma nel 1998-1999 avevo voglia di scrivere sul niente e ho scritto sul niente. L’inizio dei bombardamenti, ha coinciso con uno mio scritto dall’Italia molto apprezzato dalla critica. Dopo ho voluto provare a scrivere un libro sperimentale e lì ho perso una parte del mio pubblico, perché si aspettavano che scrivessi di guerra e io invece ho scritto su tutt’altro. Comunque la risposta alla tua domanda è sì!
Due parole sulla Società Letteraria Serba
C’è molta qualità, ci sono tanti bravi poeti che ne fanno parte, bravissimi autori di romanzi e di corti, ma ci sono sempre fortissime spaccature. In questo periodo, per esempio, si è innescata una polemica molto grossa riguardo il premio di un romanzo, anche se io non faccio parte di questa polemica. La Società Letteraria Serba è buona, con tanti obiettivi e prospettive, ma è sempre divisa.
Non vuoi sentirti chiamare serbo-bosniaco. Vero?
Io sono nato in Bosnia, da un matrimonio misto, ma mi sento serbo. Tu puoi essere scrittore serbo, o scrittore bosniaco o croato, solo nello spazio geografico yugoslavo. Essere serbo, significa in qualche modo, agli occhi degli altri, non essere un uomo di fiducia, per i peccati commessi dai padri. Non credo in questo, sono bosniaco, ma non mi sono mai sentito bosniaco. Io sono serbo.
Che libro hai sul comodino?
Tanti libri, perché adesso faccio parte di una giuria per un premio letterario e ho letto circa cinquanta romanzi in un mese. Durante il lockdown ho letto anche un italiano, ma un italiano dei tempi addietro, un bolognese, Marsigli, perché voglio scrivere un romanzo in cui Marsigli sarà narratore.
Anna Lattanzi