“L’anno che a Roma fu due volte Natale” – Roberto Venturini


Voto: 3,5 stelle / 5

“L’anno che a Roma fu due volte Natale” è il secondo romanzo di Roberto Venturini e rientra nella dodicina del Premio Strega 2021. È stato pubblicato da Sem lo scorso gennaio. Ringraziamo la casa editrice per la copia cartacea in omaggio.

Trama de L’anno che a Roma fu due volte Natale

Alfreda è una vedova che vive a Roma con suo figlio Marco e che si sta lasciando andare all’obesità e alla trascuratezza. Intorno a loro si muovono due personaggi singolari: il pescatore Carlo e il travestito Er Donna. Alfreda avanza una richiesta un po’ strana, anzi ai limiti della legge, anzi proprio illegale, e Marco coinvolge gli amici pur di esaudirla. Ma non hanno fatto i conti con il destino, che ha da parte qualche scherzo un po’ macabro.

Recensione

La particolarità principale de “L’anno che a Roma fu due volte Natale” è lo stile con cui è scritto. È un linguaggio pirotecnico, ricco di metafore e similitudini. Un otto-volante di espressioni che vanno dal romanesco ai dialoghi alle pubblicità degli anni ‘80, per poi far capriole con un fitto gergo denotativo (scientifico, medico, psicologico) e atterrare nuovamente, in piedi, su un tappeto linguistico coloratissimo e connotativo.

“Era un tutto grande come la corrente furiosa delle loro esistenze che li aveva trascinati passivi verso la meta: il traguardo che era il parto della perdita, una fine maestosa come una nascita”.

Per riuscire a seguire il romanzo, quindi, è importante accettare questa condizione: agganciare le cinture di sicurezza e partire. Si affronteranno digressioni, divagazioni, picchi di pathos e colpi di scena inspiegabili, praticamente surreali. Si sorriderà e subito dopo si faranno anche i conti con amarezze profondissime, considerazioni disarmanti e tremende verità.

L’autore raggiunge lo scopo di alleggerire un romanzo che è tragico più che drammatico, ma la sua ironia è, a volte, così sottile da risultare impercettibile.

“Ci pensò un po’ poi decise che quella dell’amica non era un’espressione di benessere come l’avrebbe definita la portinaia del palazzo dove era cresciuto, ma di liberazione; che spesso le due cose si contraddicono perché la liberazione non esclude necessariamente la sofferenza”

Si tratta di uno stile che si ama o si odia, ma quel che è certo, è che necessita di grande attenzione. Quel che colpisce e rimane scolpito nella memoria del lettore, che pur riesce più volte a sorridere mentre si addentra tra le vicende, è l’immagine di un dolore che non lascia scampo a nessuno dei personaggi incontrati.

Cristina Mosca e Adelaide Landi

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