“È così che vive la gente, Milt” dice Michael Antoniou, sempre affabile e cortese, “raccontando storie. Qual è la prima cosa che dice un bambino quando impara a parlare? Raccontami una storia”. È così che capiamo chi siamo, da dove veniamo. Questa è una delle premesse di “Middlesex” di Jeffrey Eugenides (2002).
Trama di Middlesex
Ed è proprio in una storia che ci immerge Eugenides, nella storia di Calliope Helen Stephanides, che a quattordici anni diventerà Cal. E l’io narrante la dipana per capire, per farci capire, da dove viene, da dove arriva la sua anomalia cromosomica che lo porta a scoprire di essere uno pseudoermafrodito maschio, in un’America della rivoluzione sessuale post sessantottina.
È una storia che parte da lontano, da un paesino turco poco lontano da Smirne, negli anni ‘20 del secolo scorso e approda ad una Berlino recente, passando, come dicevo, per gli Stati Uniti, che accolgono i nonni di Callie/Cal in fuga da una Smirne in fiamme.
Un romanzo di formazione che è anche un po’ una saga familiare, ma forse ha pure della Storia perché sullo sfondo della famiglia Stephanides vediamo dalla guerra greco-turca del 1919, alle migrazioni di massa dei greci negli USA, al proibizionismo, la crisi del ‘29, fino alle sommosse dei fratelli neri del ‘67, alla guerra del Vietnam.
Cambiamenti, fondamentalmente.
Perché credo che in Middlesex, soprattutto, si parli di cambiamenti, personali e sociali. Quello più evidente è di Cal, ma la sua intima mutazione è perfettamente inserita in tutto quello che la circonda, partendo dai nonni che da fratelli si trasformano in marito e moglie.
Tuttavia certi cambiamenti sono difficili da assimilare, non parliamo poi del renderli pubblici. L’essere umano ha una certa capacità di adattamento che gli permette di sostenere le nuove situazioni che gli stravolgono l’esistenza? Oppure si abitua? Alcune “variazioni” sono sopportabili, altre magari no, però sembrano non essere impossibili da sostenere, del resto la vita è così: mai uguale a se stessa, e non ci resta altro che fare di necessità virtù, quando alternative non ce ne sono si deve solo percorrere la (a volte tortuosa) strada che conduce ad un equilibrio.
Recensione
In questo romanzo, il rapporto tra narratore e lettore è diretto, l’eloquio di Eugenides è fluido, brillante, e parlo di eloquio e non di scrittura proprio perché somiglia alla tradizione orale con cui i greci tramandavano la loro “letteratura”, le loro tragedie a cui lo stesso autore fa spesso riferimento. Sembra quasi che Eugenides si sieda nel tuo salotto o nella tua cucina e tra un caffè ed una sigaretta ti racconti la vicenda dei suoi cromosomi che prendono il nome di Desdemona, Lefty, Milton e Tessie, in una danza circolare, un po’ come nel rituale greco del matrimonio: “per andare avanti bisogna tornare indietro da dove si è cominciato”.
“Ricordati, Cal, il sesso è biologico, il genere è culturale.”
È sicuramente un libro di rara intensità, si sorride, ci si commuove, Eugenides riesce ad affrontare un tema così difficile con leggerezza, senza mai scivolare nella banalità… però a volte parla parla parla parla affrontando moltissime tematiche, rallentando un po’ la storia, senza, tuttavia, che questo infici il bilancio positivamente complessivo di questo lavoro.
Perciò, per quello che vale il mio consiglio: non lasciatevelo scappare.
Chiara Carnio
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