Analisi di un mini-racconto di Diego Muñoz Valenzuela

velenzuela - i racconti più brevi del cile

Dino Buzzati ha scritto un racconto intitolato Sette piani. Vi si narra di un avvocato che si fa ricoverare in ospedale per una sciocchezza. L’edificio ha, appunto, sette piani, a ognuno dei quali corrisponde un diverso grado di gravità della malattia. In cima ci sono i casi più lievi, a piano terra quelli senza più speranze. Quella che sembrava una cosa da niente, per il “malato” si rivela un incubo. I medici, per un motivo o per l’altro, lo trasferiscono di continuo. Fino a che lui arriva al famigerato (e temutissimo) piano terra. Quale sia il suo destino è facilmente intuibile.

Una cosa simile succede nel mini-racconto Ordine, dello scrittore cileno Diego Muñoz Valenzuela (lo si può leggere alle pagine 60-61 dell’antologia I racconti più brevi del Cile, pubblicata nel 1997 da Fahrenheit 451).


Il mini-racconto

È notte. L’uomo prende un tassì. Vanno. Il tassista “assalta” l’uomo. Gli ruba denaro, documenti. L’uomo resta abbandonato all’angolo di una via. Arrivano “assaltanti” con coltelli nei pugni. Lo spogliano dei suoi vestiti. Fuggono. L’uomo, nudo, va in cerca di aiuto. Lo arrestano perché non porta su di sé nessuna identificazione. Sospettano delinquenza sessuale. Lo chiudono nella cella dei sodomiti. Viene violato. Grida. I guardiani lo accorrono. Il giorno seguente lo trasferiscono in infermeria. Il medico ordina di cambiargli la cella. Lo iscrivono a ruolo. È trasferito alla sezione dei prigionieri politici. Dopo alcuni giorni lo interrogano. Non gli credono, non ha documenti. Nessuno sa o ricorda il motivo della sua detenzione. Neppure l’uomo ricorda chi lo arrestò. Lo torturano. Esigono che fornisca i nomi dei suoi “contatti”. L’uomo racconta la sua storia. Tutti ridono. Non lo fanno comunicare con nessuno. Rimane nella sua cella solitaria. Per vari mesi. Quando si ricordano di lui è debolissimo, e pazzo. Lo mandano al manicomio. Grida che lo lascino in pace. Muore.

Analisi

Come si vede, il protagonista non ha un nome. L’autore, però, non lo definisce un uomo, bensì l’uomo, quasi a voler indicare proprio quell’uomo, non uno qualsiasi. E continua a chiamarlo così per tutto il mini-racconto. Una sorta di indistinta determinazione, insomma.

La narrazione parte da un evento solitamente privo di importanza: un tizio prende il tassì. Solo che il tassista lo deruba e lo abbandona per strada. Da quel momento, si abbatte sul suo capo un crescendo di sventure dall’aroma vagamente kafkiano. Valenzuela le descrive in maniera fredda e impersonale, servendosi di una impietosa successione di frasi brevissime, accostate le une alle altre. Oltre a conferire un ritmo incalzante alla narrazione, questo procedimento paratattico accentua la freddezza con la quale vengono trattati gli eventi.

L’autore, infatti, non mostra indignazione né partecipazione emotiva nei confronti dell’uomo, che cade sempre più in disgrazia. Si limita a prendere nota di ciò che gli accade. L’uomo grida e si ribella contro le vessazioni subite da emeriti sconosciuti. Valenzuela no. Assiste impassibile al disinteresse che le istituzioni dimostrano verso quella che ormai è la loro vittima predestinata. Arrivano perfino a dimenticarsi del motivo che ha portato alla sua detenzione, lasciandolo oltretutto nel più completo isolamento. Gli hanno tolto ogni cosa: beni materiali, identità, libertà. Non ha più nulla. Gli resta solo il rifugio della follia. E la morte.

Ordine ha la struttura di un cerchio perfetto. Si apre e si chiude con due notazioni pressoché lapidarie. A un capo, una rilevazione astronomica: È notte. All’altro, la constatazione dell’inevitabile epilogo luttuoso: Muore. Da un tipo di buio a un altro tipo di buio. È notte anche quella.

 

Commenti