“Nella fierezza del vento”

Il gruppetto di persone radunate sotto la tettoia, vicino allo spiazzo dell’area ecologica, dove erano arrivate, goffe e smarrite, dopo aver lasciato le case, ancor prima che venga pronunciata la sentenza, cerca di capire quanto critica sia la situazione dall’espressione degli uomini in divisa, illuminati dalla torce. La voce del vigile del fuoco, sbucato tra gli alberi e seguito dagli altri e da uomini della forestale, deve fronteggiare il vento ruggente di sibili davanti a una confusa, timorosa processione.

– Immaginiamo lo spavento, ma potete stare tranquilli.
Il rumore che sentite arriva da là, dalla piazzola vicino alla casa in restauro in mezzo al bosco – dovreste aver visto i lavori in corso, no? la betoniera, i camion passare? – ebbene qualcuno ha deciso di sfruttare il vento della valle con un generatore eolico a vela! E col vento forte di stasera si è messo a funzionare. Eccome se è partito! Bisogna ammettere che non si poteva trovare luogo migliore per questo esperimento! Tanto da far partire una bella denuncia per procurato allarme!
Portate pazienza; abbiamo preso i dati dal cartello della licenza: proprietari e responsabili dei lavori sono già stati avvisati.

Chi rimane in silenzio, chi protesta, chi si lascia andare ad un sospiro di sollievo – finalmente – più di uno impreca in un accumulo di voci, ma nessuno si muove nonostante il freddo e le raffiche di vento, come non potesse andarsene per conto proprio facendo finta che non sia successo nulla.

Non era stato uno dei boati ordinari, quelli con cui la montagna ogni tanto amava ridestare l’attenzione dei suoi abitanti, uno di quelli per cui, da mesi, si erano messi in moto tutti gli esperti e, alla fine, tutti pronti a rassicurare: – Niente allarmismi; si tratta di piccoli movimenti di acque nelle pareti superficiali: nessun pericolo per voi o per le vostre case.
E, pian piano, visto il diradarsi dei fenomeni, avevano iniziato a crederci, abituandosi anche a ciò che in un primo momento sembrava inconcepibile: la montagna non li avrebbe traditi.

Questo però si era presentato in modo diverso: un ruggito, uno sconquasso, o forse l’urlo di una donna in travaglio proveniente da qualche punto a mezza costa tra il fondovalle e lassù, dove la montagna s’inasprisce e gli alberi non s’azzardano a crescere, sulle linee arricciate delle rocce.
Sconvolgente se, in una serata in cui nessuno pensava di mettere il naso fuori, era riuscito a radunare una parte dei valligiani sotto quella tettoia.

Là, dove solo il vento arrivava con una fierezza smussata, non il rumore che, con cadenze diverse a secondo dell’intensità delle raffiche, interrompeva i discorsi, circospetti e timorosi, come di chi è nell’attesa di qualcosa, ma non sa che cosa. Anche le case probabilmente avevano messo del loro nel forgiare i caratteri degli abitanti: la maggior parte distanziate; poche si sorreggevano l’una all’altra.
Uomini da subito allertati – vigili del fuoco, forestale – avevano perlustrato il territorio, in una ricognizione fuorviata dal vento e dall’eco di uno stridore mai sentito, che rimbalzava ora da una parte e ora dall’altra, come si divertisse in un gioco a rimpiattino.

Appena quel giorno il sole era scomparso, il vento aveva iniziato a soffiare blandamente, diventando feroce quando le prime tonalità verdastre avevano chiuso alla vista anche gli spazi aperti degli antichi sentieri, percorsi decenni addietro da chi attraversava la montagna per qualche forma di baratto, ed ora calpestati più che altro i fine settimana da qualche raro frequentatore.
Non era una zona turistica quella: con la costruzione del viadotto avevano chiuso anche le poche attività; molte case, abbandonate da decenni, aspettavano solo l’opera benigna del tempo a polverizzarle; altre avevano l’aria vissuta dei proprietari che mai se ne erano allontanati o si erano chiesti come sarebbero stati i loro giorni in un luogo diverso. Due o tre, a dir la verità, erano state rimesse a nuovo da chi abbracciava l’idea di un’alternativa di vita, da subito scrutato con diffidenza dai locali, con l’occhio alle loro cataste di legno addossate alle case:
– Il tempo di passare un inverno, quando il gelo spacca i tubi e staremo a vedere…
Anche qualche immigrato che aveva trovato lavoro nelle fabbriche del paese più vicino aveva afferrato al volo un’occasione, senza andare tanto per il sottile davanti al tetto difettoso o alle assi delle imposte pronte a sfracellarsi a terra.

Il primo di quella serie di sibili aveva colto alcuni abitanti alla finestra della propria casa, stregati alla vista degli alberi che agitavano le chiome. Come Adelmo, al quale la malattia non permetteva tregua; il sonno lo coglieva di solito rannicchiato sulla vecchia poltrona sfondata, ancor prima che il cielo si coprisse del nero profondo, ma poi il risveglio, lucido, e le ore a peregrinare in compagnia dei suoi incubi, pronti a braccarlo appena si assopiva.

A una trentina di metri da casa sua, Hossam, stabilitosi da poco con moglie e due tre mociosetti con gli stessi tratti somatici: occhi scuri e corpi ossuti, arrivati chissà da dove; Marocco o Tunisia che fosse, per Adelmo non faceva differenza e non gli serviva saperne di più. Anzi, come proclamava spesso, a star solo nessuno prova a dar consigli, e lui di consigli non aveva bisogno.
Hossam, ma quando gli capitava di rivolgergli la parola, lo chiamava caparbiamente Osso: un altro dei tanti, troppi, altro che lui – gli piaceva raccontarla così – andato in Francia a lavorare, a dormire in una baracca, arrivato con le carte in regola, lui. Comunque ognuno a casa sua e, se Osso pensava di aver trovato l’America qui in Italia, non sarebbe stato Adelmo a fargliela trovare.

Per la vecchia Pina, a dir la verità, la finestra era da considerarsi luogo in cui sostare essenzialmente per farsi i fatti degli altri. Lei, occhi ed orecchie per tutti, da sempre aveva concentrato la propria attenzione verso i pochi ragazzetti della valle: osservarli, coglierli in fallo, perché prima o poi qualcosa avrebbero combinato. In modo che, frequentemente, tanta dedizione veniva ricompensata con frenate e sgommate di bicicletta davanti a casa sua solo per il gusto di vederla uscire scarmigliata con in mano ciò che teneva in quel momento, scopa o pentola che fosse.

Però quel giorno i suoi sensi, fin dalla mattina, erano stati in allerta per qualcosa di ben diverso: il fare furtivo della vicina, la Rosangela, che ce l’aveva messa tutta per passare inosservata, come dovesse nascondere qualcosa.
Non le risultava fosse invitata a qualche cerimonia e, se pensava di nascondere le guance avvizzite con quei ciuffi schiariti, qualcosa in ballo doveva esserci, per cui la situazione andava valutata.

Per Rosangela, invece, quella sera indugiare alla finestra era un modo per permettere alla mente di sconfinare. La mattina aveva ovviato all’affronto della ricrescita concedendosi – ma sì – i colpi di colore, ed anche un taglio con le ciocche irregolari, aveva stirato un abito che non indossava chissà da quanto; dopo la doccia aveva indugiato sulle mani con una crema che non avrebbe fatto miracoli su quella pelle lisa come una vecchia stoffa. Aveva un bel ripetersi che invitare un uomo in casa era faccenda sua, sua e di nessun altro. Ma ritornavano le libertà negate di una vita, ritornavano gli sguardi giudicanti di suo padre quando controllava la lunghezza della sua gonna. Se, dopo anni di vedovanza aveva accettato quella corte discreta, era solo per sfuggire alla solitudine – sapevano gli altri cosa significa la parola solitudine? – Era stata lunga la giornata, passata nelle ultime ore a spostare e rispostare gli oggetti anche di pochi centimetri, con movimenti bruschi; al telefono con il figlio aveva tagliato corto, come lui potesse leggerle in viso la colpa. Incapace di star ferma, pensava che, se esisteva un prezzo da pagare per spezzare la sua solitudine, voleva come alleato il buio: si poteva amare – o quel che era – anche con le vene varicose e un corpo mutato e ingombrante?

Al primo fracasso, Tilde, minuta come una bambina, invece era già stretta attorno alle lenzuola: ogni tanto una pausa senza staccare le mani dalle perle del rosario, col pensiero ai nipoti. A quando preparava il pane spalmato con il burro e stava a guardarli, ad ascoltarli; o quando li affascinava con le storie e i personaggi della montagna e loro lì, col fiato sospeso, a pendere dalle sue labbra. Ora le facevano una telefonata ogni tanto e, quando venivano a trovarla, stavano sulla porta perché avevano solamente un “attimino” di tempo.

E proprio allora era arrivato quel frastuono, a intermittenza, come ondate, come fitte di dolore.
In breve tempo erano usciti e si erano ritrovati insieme sotto la tettoia, in un tempo impregnato di incognite, sospeso, gli sguardi che correvano alla montagna, o dall’uno all’altro, senza sostare, per paura di leggervi timori più grandi dei propri, i pensieri incanalati nella stessa direzione: la paura di un crollo, di un’evacuazione forzata, di perdere la casa. E poi? Andare dove? Dipendere da chi?

E poi, invece, l’annuncio del vigile del fuoco, l’apprendere che non sarebbe successo nulla di grave e possono tornare alle proprie case, mentre Tilde, la quale non afferra i dettagli ma percepisce la tensione allentarsi, il rosario portato con sé intrecciato alle dita, sta ancora scandendo piano preghiere: per se stessa, per Adelmo, Pina, e anche per quell’uomo arrivato all’improvviso, mai visto prima che in silenzio si è avvicinato a Rosangela e le parla sottovoce, per Hossam e la sua famiglia, e tutti gli altri, anche per chi l’ha guardata invidiandole la consolazione della fede.

Adelmo non si accorge nemmeno di aver dato la mano ad un figlio di Hossam che gli si è appiccicato addosso con spiazzante ingenuità: è l’incontro di un sorriso assonnato con quello di chi ha, invece, il sonno inappagato della vecchiaia. E quando Adelmo incrocia lo sguardo riconoscente del padre è solo un attimo, e in quell’attimo che probabilmente domani rinnegherà, gli occhi del vecchio dicono: – So cosa hai provato: vogliamo restare tutti qua perché, se in questa valle non si sta proprio bene, non si sta neanche male.

Rosangela, la quale mai avrebbe immaginato che quel primo incontro, desiderato e temuto allo stesso tempo, avvenisse sotto gli occhi di tutti, a questo punto pensa le sia permesso smantellare inutili difese, rovesciare le coordinate su cui ha intessuto una vita. All’improvviso non sono più importanti le chiacchiere di domani, i pettegolezzi; vorrà essere viva ogni giorno, tenersi stretti quell’indennizzo inaspettato e le gioie banali di una storia alla sua età.

Pina intanto ritiene suo dovere spiegare con chiarezza ad Hossam, il quale ha capito ben più di lei il meccanismo di una vela eolica, ciò che è successo; per nascondere il senso di smarrimento, piuttosto di dirigere lo sguardo verso Rosangela – ma non l’aveva detto lei che gatta ci covava? – si accontenta di tenere sotto controllo i bambini perché non si sa mai.

Pian piano cominciano ad allontanarsi, chi borbottando e chi chiuso dentro il suo silenzio, ma con un senso inaspettato di leggerezza dopo essersi ritrovati in una vicinanza di supposizioni, di incertezze, ma soprattutto di attaccamento perché non importa se non vivono in un luogo da turismo, se su in alto, dove volteggiano le poiane, incombono i piloni dell’autostrada. Se chiedessero loro cosa amano di questo luogo, non ci sarebbe una risposta univoca, ma qui c’è la loro casa, la loro terra, ed anche la loro idea di dignità e di coraggio.

E dentro quel senso di solitudine, quasi una corazza, che in posti così non ti lascia mai, tutti hanno bisogno di quei boschi e di quelle pietre, della riga orizzontale del laghetto tra i pendii impervi.
Chissà se la vicinanza di stasera con quel qualcosa di indefinito, che forse è esagerato chiamare affinità, prima che si perda nel disordine delle sensazioni e delle percezioni confuse lascerà degli strascichi? Domani se ne ne parlerà, oh certo, si parlerà di dettagli tecnici, di un vento forte, un sibilo insopportabile, un generatore e una vela eolica, probabilmente di proprietari sconsiderati, ma non del bisogno comune dello stesso orizzonte. Non si toccheranno i pensieri intercorsi nel tempo breve di un incontro, come reperti preziosi che, se portati alla luce, si sbriciolano.

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