Profumo di pane

Un lungo, filiforme corteo risale dal lavello, sfila imperterrito sulle piastrelle, diramandosi come i suoi pensieri, impertinente come il suo cruccio.
Prova a toglierle di torno – formiche e ansie – ma pronte a ripresentarsi: infestanti le une al pari delle altre.
Colpi di straccio ricadono pesanti sull’ordinata processione.
Scacciata da una parte, eccola ricomposta poco dopo in disciplinata, regolare parata.
Molesta come la sua inquietudine, nera come il suo umore.
Un’inquietudine che, da qualche giorno, non le si stacca di dosso, mette in discussione ciò in cui mai – mai! – aveva dubitato.
Ah, se il prete le richiedesse in questo momento: – Vuoi tu…?
– No!
E giù un altro colpo di straccio.


Non l’aveva forse amato e onorato in tutti i giorni della sua vita?
Eppure lo sapeva bene, tanti anni prima che, nel contrarre matrimonio in piena libertà, l’ultima cosa da mettere in conto sarebbe stata una vita di condivisioni.

Così erano andate le cose, da sempre: quando lei si metteva a tavola, verso l’una, lui andava a stendersi in modo che alzandosi, alle tre, tre e mezza, mangiucchiava qualche avanzo da riscaldare, lasciato coperto dal canovaccio a quadri sopra il tavolo ancora apparecchiato. Poi si avviava verso il forno, staccava dal chiodo il grembiule bianco che lei appendeva lavato e stirato un giorno sì ed uno no, ripuliva i macchinari, pesava e preparava gli impasti. Cenare sì era cosa che facevano puntualmente insieme, ma ancora prima che lei sparecchiasse, otto e mezza, nove, tornava a letto per quelle orette di sonno necessarie. Lei tirava fuori il suo punto croce, le svariate matassine di cotone moulinè: in tanti anni, se lui aveva sfornato pane, lei aveva sfornato centrotavola, asciugamani, presine.
Poi la sveglia, puntigliosa, a mezzanotte e un quarto.

Neanche da giovane si poteva dire fosse bello, con il mento prominente, gli occhi infossati, ma aveva quelle mani, oh quelle mani, talmente abili da trasformare il suo lavoro in un’arte.
E il carattere, così diverso dagli altri, tronfi e boriosi? Lui no, come se il bilancino usato al forno lo adoperasse anche con le parole: della giusta misura. Insomma – da prenderlo o lasciarlo così com’era – si sapeva che la sua passione era preparare il pane e poi partire: via con la vecchia giardinetta, sostituita più avanti da un Fiorino. La musica, invece, sempre la stessa, ariette evocative accompagnate dal ticchettio sul volante: paese mio che stai sulla collina a disperdersi lungo i tornanti, puntualmente rimpiazzate, con la suggestione dei primi tepori, all’imbroglio della maledetta primavera. Quella era la sua vita: in giro per paesini e contrade, i sacchetti di pane pronti alla distribuzione, consegna porta a porta, uno scambio di parole ad ogni fermata.

Mai, mai era mancato, estate o inverno, neve o vento, in buona salute o con le tonsille grosse come mandarini. Ancora più tempestivo dei registri comunali nel captare i cambiamenti demografici dei quali i sacchetti di pane erano lo specchio: da quelli rigonfi con cinque, sei pagnottelle era passato a una o due, consegnati in case sempre più vuote, a vecchi che il pane faticavano pure a masticarlo, tanto da chiedersi se fosse proprio necessario percorrere magari qualche chilometro di strada sterrata, andata e ritorno, per un euro.
Ma era sempre quella cosa a fregarlo, indifferente e pronta ad infischiarsene anche di fronte alle evidenti perdite economiche: la passione.

Lei aveva tentato, poco dopo sposati; oltre al forno lo spazio per una rivendita c’era, un negozietto senza pretese, magari con l’aggiunta di qualche pacchetto di riso, pasta, biscotti; la licenza già in tasca: sarebbe bastato richiedere un cambio d’uso.
No, non se parlava proprio!

E così erano andati avanti, con una vita abitudinaria, senza pretese o grilli per la testa, in cui però non erano mai mancati certe attenzioni o sguardi, quelli di lui soprattutto, più sguardi che parole visto che con gli altri parlava, ma con lei – come dire? – non aveva tanta dimestichezza.

Però ora! Intanto i ritardi, non il ritorno dal giro di vendite intorno a mezzogiorno, ma all’una, una e mezza. Da aggiungere quel pallore, l’espressione stranita, il tremore, i discorsi spezzati. E quando si era affacciata alla porta della camera il giorno prima, così, tanto per controllare se stesse dormendo? Macché dormire: bello sveglio, gli occhi spalancati al soffitto, lo sguardo fisso.
Un primo cambiamento c’era stato già tempo addietro, quando le aveva detto che non serviva si alzasse a fargli il caffè. Affronto peggiore non poteva esserci: se pensava di farle un favore sbagliava di grosso, tanto più che, a quell’ora, il suo ritmo biologico era all’erta. Non si era sempre alzata per servirgli il caffè in piena notte, prima di tornarsene a dormire, cambiando posto nel letto, stringendosi al cuscino di lui con quell’odore di pane che la induceva a riprendere sonno subito? Un segnale – quel cambio di abitudini – che di sicuro non l’aveva bendisposta: pensava di avere qualcosa da farsi perdonare? Alla sua età ? Aveva scelto di farla invecchiare da sola, di far andare alla deriva una vita insieme? Proprio adesso che si doveva tener duro, erano giunti al capolinea?

Intanto, se la lotta intorno al lavello, rafforzata anche con armi chimiche, produce uno sterminio di formiche, quella parallela, perseguita con armi da urto, colpi ben assestati, dà sfogo ai pensieri: un’intera organizzazione sociale di insetti annientata e una pianificazione mentale che si fa largo, lucida, dettagliati i tempi e i modi d’azione.
Con la pazienza di chi ha dei punti saldi da difendere, avrebbe atteso domani, il loro sabato sera, la sveglia messa a tacere, momenti per loro due, da sempre: quelle soste prolungate quando andava a vendere il pane andavano chiarite e specificate. Perbacco: le parole gliele avrebbe tolte di bocca, una ad una! E poi, come nell’enigmistica, avrebbe avrebbe collegato i puntini.

Ed ecco, appunto, arrivare anche sabato; inappuntabile come sempre, lui parte alle sette meno dieci. Prima le abitazioni lassù tra i boschi, la maggior parte di esse abitate da un’unica persona, la strada che si srotola con cambi continui di marcia, mai oltre la terza.

Il primo da mandar giù alle sette e venticinque precise.
La moka già pronta, accesa alle sette e ventidue: Lucia fida sulla puntualità, minuto più minuto meno. Aspetta solo il furgoncino del pane, da quando anche il pulmino non si fa più vedere nei dintorni – i bambini in borgata un ricordo del passato – la possibilità di uno scambio di opinioni: il tempo, la cervicale, chi è morto, chi ancora non lo è ma, insomma, è lì lì, e poco ci manca.
Lei lo prepara abbondante e intenso.

Il secondo verso le nove a casa di Aristide, vedovo di fresco; con quale cuore dirgli di no, rifiutare un caffè, due parole in compagnia, balsamo per la sua solitudine? E qui inizia a farsi sentire un po’ di tachicardia, ma appena appena, accompagnata però da un benevolo effetto digestivo, la ribollita della sera precedente che s’incanala, prende la giusta direzione. Anche l’asma di cui ciclicamente soffre sembra attenuarsi. In fondo quel caffè infonde pure una bella ricarica con la sua funzione analgesica per l’anca dolorante.

Poco dopo è il turno di Vigilio: che sia un tipo iracondo è cosa nota, che con la testa ci stia e non ci stia altrettanto risaputo: o lo sai prendere oppure corri il rischio di sorbirti un assortimento di imprecazioni o, peggio ancora, di ritrovarti il giorno dopo coi chiodi sugli pneumatici. Stamattina lui potrebbe cavarsela, visto che l’uomo è intento a bruciare le sterpaglie. Sterpaglie però abbandonate in tutta fretta, appena il Fiorino si ferma. Vigilio gli fa cenno di entrare in casa dove, mentre si beve il terzo, abbastanza gradevole pur se dolciastro, spia con occhio ansioso il fuoco nel prato, sempre più vigoroso.

Migliore è quello che prepara il prete: una vera crema, profumata e consistente. Per quelli della sua generazione, pur santificando solo le feste principali, il prete è sempre un’istituzione, anche se la tonaca non la porta. Ancor di più ora che questo, poveretto, se ne sta in una parrocchietta quasi dimenticata; mentre sorseggiano il caffè due chiacchiere, rigorosamente all’insegna dell’imperfetto: “era una brava persona, dedita al lavoro e alla famiglia”.

E mentre ora ridiscende la strada tutta curve si sente attento, attento e vigile.
Ecco, il vigile appunto: stamattina c’è pure lui ad aspettarlo al bar, sono cresciuti insieme, ne hanno da raccontarsi; il minimo è la condivisione di un caffè. Anche se, a questo punto, si aggiunge il reflusso gastrico, per contrapposizione diminuisce il senso di fatica. Che, ad esser sinceri, se anche il vigile non ci fosse, lo stimolo non mancherebbe: si sa quanto il caffè aumenti la motilità della muscolatura intestinale e mica puoi andare al bar senza consumare. Certo, si potrebbe ordinare altro, ma un prosecco di mattina, così a digiuno, meglio di no, e poi la parola caffè di solito esce da sola, quasi senza rendersene conto. La caffeina comunque tiene decisamente sotto controllo la sciatalgia; perfino la leggera zoppia a questo punto appare attenuata e, sebbene non sia fattibile una corsetta, i crampi muscolari, tutto quel tirare, passano in secondo piano.
E così, casa dopo casa, chiacchiera dopo chiacchiera, dei caffè, che siano acquosi o forti, dolci o amari, avanti uno e a seguire un altro, perde pure il conto.

Questo, di fronte alle sue carezze, alle domande provate e riprovate, ma buttate là abilmente, come per caso, lui le confida il sabato sera tenendola abbracciata.
E a lei, quelle confidenze – non le testuali parole, questo proprio no, considerato un certo ingarbugliamento cronologico unito alle abilità sintetiche da sempre usate quando le parla – suonano bellissime.
Non capisce però perché adesso non la smetta di piangere e soprattutto quando, sorpreso, le chiede cosa stia succedendo, gli risponda che è tanto, tanto felice.
Mah, una vita insieme e ancora riesce a stupirlo. Comunque quando, tirando su col naso, lei afferma che va a farsi un caffè – tanto chi è capace di dormire? – senza accorgersene, così per osmosi sentimentale o forse solo per farle intendere il suo senso di vicinanza, anche se non ha capito il perché della sua commozione, le dice che quasi quasi un sorso lo berrebbe anche lui.

Sente il suo armeggiare in cucina; riconosce lo stridore della caffettiera che sta avvitando, il rinchiudersi dell’armadietto, il trillo del microonde con cui scalda il latte. I soliti rumori, ma rassicuranti che lui ascolta come fossero musica, gli occhi socchiusi e la testa sul cuscino di lei.
Un cuscino che, come il suo, sprigiona un delicato profumo di pane.

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