Il pane rubato

Nel dormiveglia gli sembra di stare nel vecchio letto matrimoniale, quello con la testiera metallica e i pomi agli angoli, che divide con suo fratello.
Basta poco però per far sì che il il dolore si propaghi, dal collo al braccio, e poi si ripercuota su tutto il corpo: un trascurabile spostamento a riportarlo lì, nell’isolamento della baracca.
Zitto, deve stare zitto: gli è stato detto chiaro.
Almeno per qualche giorno.
Almeno finché i documenti non saranno tutti sistemati, dovesse passare il controllo.

Vorrebbe cambiare posizione, girarsi sul fianco ma la stecca, ricoperta dalla fasciatura rigida, non agevola il movimento.
Durante la notte, se il sonno l’ha lusingato ogni tanto, poi è stato pronto ad abbandonarlo, a lasciarlo in balia delle stilettate che rimbombavano perfino nelle orecchie, togliendogli il respiro. Non ha portato consiglio la notte, ha portato buio e dolore, in attesa dell’ingiuria del giorno.
Si è chiesto se fosse capitato solo a lui di essere medicato da un dottore dentro una baracca, sotto la luce fredda di una lampadina penzolante. Un dottore – almeno spera sia davvero così – di quelli che non avrebbero parlato, messo a tacere con qualche franco che, magari, lui si sarebbe visto togliere dalla paga, quando avrebbe potuto riprendere il lavoro.

Pensando a ciò che è successo, non ricorda l’impatto, ma solo il vuoto quando è caduto dall’impalcatura, poi la nebbia, le voci dei compagni, braccia che lo sollevavano, crede di aver perso i sensi. Quindi la baracca, dove rammenta di aver urlato appena il dottore gli ha toccato il braccio, quel brusio nervoso tra quest’ultimo ed il capocantiere di cui aveva percepito chiaramente solo due parole : clavicule…fracture. Hanno confabulato tra loro come la caduta fosse cosa che non lo riguardasse; a lui la colpa di aver creato una scocciatura, anzi un’ingiustizia in quella generosa terra straniera che gli aveva dato lavoro.
Quando il dottore, prima di andarsene, gli aveva fatto una puntura, aveva capito che doveva accontentarsi di quella, l’unica: non ce ne sarebbero state altre ad alleviare il dolore.
Starsene buono – gli era stato detto. Non potevano rispedirlo a casa in quelle condizioni: per ora doveva rimanere lì, al chiuso della baracca, relegato sulla branda, trascinarsi ai gabinetti all’occorrenza, ma senza dare nell’occhio.

Prima di partire gli era stato assicurato che i documenti erano a posto: tutto in regola, ma qualcosa si era inceppato, si era perso tempo nel dare avvio al contratto e intanto lui aveva iniziato a lavorare…
Era partito solo una settimana prima e, se al paese la primavera mostrava le prime ditate sui prati e sugli alberi e già si iniziavano ad incidere le patate per interrarle nel campo, qui era ancora inverno.
La cartolina, spedita appena arrivato a quella ragazza che stava già contando i giorni per il suo ritorno, sul retro aveva la scritta: Arachez (Haute Savoie)Altitude1140 m. Station de départ du téléski.
Un posto per i signori, per gli sciatori, gente abbronzata anche a gennaio. Con la teleferica da rifare, più grande, lavoro ce n’era per lui e per tanti altri.

Non era la prima volta che si allontanava da casa per guadagnarsi il pane. Anche stavolta aveva intrapreso il viaggio con buona dose di spavalderia; si sentiva forte, senza il rammarico di chi emigrava forzatamente: che male poteva fare il lavoro ad un corpo abituato a darci dentro, a denti stretti, fin da piccolo?
In quell’interludio tra il Veneto ed il luogo che lo attendeva, non si era perso lo scorrere del paesaggio, la grande campagna piatta, il susseguirsi dei pali della luce, corde del bucato e biciclette con le ruote a brancolare all’aria nei cortili di lunghi cascinali. La mente stordita dal continuo sferragliare tra case o spazi aperti, ma con un filo di euforia che s’inceppava soltanto quando il treno veniva inghiottito dalle gallerie. E, come le altre volte, quel qualcosa di elettrizzante che avrebbe voluto farlo correre in modo precipitoso. Quindi lo stridore, quasi un gemito affannoso con cui il treno si era fermato. Sono i momenti in cui la tensione del viaggio crolla ma, alla vista della baracca che sarebbe stata la sua casa per i mesi prossimi, con l’ossessiva determinazione con cui ripone la fiducia nel futuro – i punti fermi scelti e difesi – ha provato perfino un’insensata, profonda gratitudine.

Forse nel suo sangue, testimoniato da un cognome così ingombrante, così comune di tanta gente dall’origine incerta, abbandonata, sparpagliata soprattutto in un rettangolo di terra tra Venezia e Belluno, scorre lo spirito di qualche avventuriero, la determinazione di chi non si intimorisce di fronte agli spostamenti e si aggrappa a tutto per sopravvivere.

La baracca ora è fredda, il tempo rallenta per chi aspetta, sta male, non ha niente da fare: un minuto pare un’ora e le ore si trascinano stanche. Gli è stato raccomandato di tenere la lampadina spenta, anche se già le prime ombre del pomeriggio si allungano ed entrano con disinvoltura dalla finestra della baracca. Da quel riquadro segue il nulla che si offre alla vista, solo il ritmico dondolio di una luminaria fuori posto, dimenticata: si vede che anche lassù, mesi addietro, qualcuno si era ricordato che fosse Natale.
Su una sedia traballante, sotto la quale fiocchi di lanugine si spostano per lo spiffero che arriva dalla porta della baracca, i suoi vestiti da lavoro, ora un mucchietto insignificante, un’insolenza a sbeffeggiarlo.

A stento prova a mettere i piedi sulle assi di legno del pavimento, diverse da quelle logorate dai passi di più generazioni che scricchiolano nella casa natia. Qui, invece, è tutto ovattato, sordo.

Troppa fatica: risprofonda nell’avvallamento al centro del materasso, senza la prospettiva di poter fare qualcosa, nell’attesa che tornino i compagni di lavoro, con la voglia di allungare il braccio, toccare quella foto. Gli prudono le dita dalla smania di ripassare il dito sul suo viso, sulle onde dei capelli: nell’immagine lei è appoggiata allo stipite della porta nella grande casa colonica, tra l’andirivieni dei bambini nel cortile, le mani in grembo, il vestito della festa, a fiori, confezionato in casa con la Singer.
Sente il bisogno di impadronirsi della prova tangibile che lo aspetta, mentre si fa stritolare dalla nostalgia. Perfino il dolore si stempera in dolcezza, quando il suo ricordo s’insinua, quando immagina la casa che costruirà per loro due al paese.
Casa: dentro quella parola c’è una melodia nascosta. Nella sua mente la sta già costruendo: sarà solida, imponente. Cumuli di pietre si ammassano, crescono, si innalzano fino al grande solaio dove riporre le scorte del granoturco. Una casa che sarebbe rimasta là ad allettarlo con le sue lusinghe, a richiamarlo ogni volta che se ne fosse allontanato.
Quegli occhi color del cielo, rimasti ad aspettarlo, sono semi che la fanno germogliare, crescere. L’avrebbe costruita lì, la loro casa, sul pezzo di terra da cui si vede la chiesa, messa in alto a vigilare sulla piccola borgata ai piedi delle Prealpi. Montagne diverse da questa dove si trova ora, alture non certo per venirci a passare le vacanze. Quei monti alle spalle del suo paese, anche se vanno a finire in una provincia diversa, li sente propri: boschi dove fare la legna, lo strame per le bestie, con i sentieri da ripercorrere anche ad occhi chiusi e i posti umidi dove crescono i funghi, da non svelare a nessuno.
Neanche essersi rotto le ossa potrà farlo mollare: sopporterà quel morso di cane pulsante sulla spalla finché non sarà guarito, finché potrà riprendere a lavorare.

Ad uno ad uno, nel groviglio di dialetti diversi, adesso entrano i compagni di lavoro, bianchi di polvere, alcuni con le Galouises in bocca, complici con lui e col capocantiere nel tenere a bada le chiacchiere che riguardano l’incidente. Meno se ne parla e meglio è per tutti: non è stato necessario dirselo.

Ti ho messo via un po’ di pane che ci hanno dato a mezzogiorno – non è solo il compaesano ad avvicinarsi. In quattro, cinque, si tolgono dalla casacca di lavoro chi un pezzo di pane, chi un po’ di formaggio, avvolti in carta di giornale, li depongono sopra la coperta.
Non si aggiunge altro: l’impacciata solidarietà maschile non sa servirsi di parole che suonerebbero imbarazzanti.
Con una smorfia di dolore, anche se usa come perno il braccio buono, lui si sforza di mettersi seduto, ma la forzata disinvoltura che ha mantenuto per tutto il giorno lo abbandona: si gira verso il muro.
Più tardi, quando le mascelle non saranno più contratte, dopo che il nodo in gola sarà sparito insieme a quel qualcosa dentro che preme per uscire – commozione o vergogna, non saprebbe dirlo – si girerà di nuovo.
Ce la farà a masticare quel pane che non gli appartiene, cui non ha diritto.
Un pane rubato.

Anche se non ho voluto accendere la luce – preferisco muovermi in penombra nella vecchia casa dei miei genitori – so con precisione cosa e dove cercare. Sono nell’anta dell’armadio, in basso: quando abbiamo svuotato tutto, fatto la cernita degli oggetti, non vedevamo l’ora di finire, come se chiudere cassetti potesse bastare. Le abbiamo lasciate lì, non abbiamo avuto il coraggio di slegare il nastrino. Era come sciogliere, svincolare qualcosa che non ci apparteneva: le parole tra i nostri genitori, prima che io e mia sorella esistessimo, avrebbero potuto saltarci addosso, graffiarci.
Il pacco di cartoline spedito da nostro padre dalla Francia, dalla Sardegna, più tardi da Torino, la grande città che aveva lavoro da dare a tutti, doveva restare là.

Ed ora, invece, mi ritrovo ad aprire una scatola di Mon Cheri, con il coperchio arricciato dal tempo, sventagliarne il contenuto, pronta a prendere in mano quelle reliquie, a fare un’intrusione senza sentirmi una ladra.
La speranza del futuro di mio padre e di mia madre qui, in queste cartoline, in colore pastello uguali per chissà quanti emigranti, da mandare alle fidanzate, alle mogli. Al centro un riquadro, spesso un cuore che contorna una coppia sorridente in attesa di una vita che potrà essere solo serena, e attorno fiori, tanti fiori: rose, narcisi, violette…

Le passo, una ad una, con solennità; le giro sul retro.
In ognuna, dove il francobollo è stato tolto, nascosto agli occhi curiosi dei familiari, un messaggio solo per lei.
Mi sembra di vederla sopra il vapore sprigionato da una pentola, mentre toglie il francobollo, con trepidazione cerca quel linguaggio d’amore cacciato in un rettangolino, dove le lettere si picchiano le une con le altre, sgomitano tra loro, minuscole, fittissime.
Le parole di mio padre – anche mancanti di una doppia, di un accento – ricolme di tenerezza, carezze di piume che non appartengono al nostro tempo urlato, sono una cosa preziosa, commovente: dovevo appropriarmi di quei messaggi per rendermi conto che ho in mano la promessa, anzi, di più, il basamento su cui è stata costruita la mia vita.

Ad un tratto una cartolina, diversa da tutte le altre, in bianco e nero: raffigura una stazione sciistica, un agglomerato di persone in festa, con gli sci. Giro anche questa; è l’unica in cui lui dà delle spiegazioni sul luogo e sul lavoro, sotto la scritta: ARACHEZ ( Haute Savoie).
Allora mi vengono in mente le sue parole sull’incidente, sul dolore fisico, sulla solitudine, ma soprattutto la gratitudine per quel pane che i compagni di lavoro gli avevano messo in serbo.

Nel tentativo di raccogliere le poche informazioni rimaste nella nebbia dei ricordi, quasi un filtro calato sopra il racconto di mio padre su quei giorni, si alzano immagini.
Non riesco a raffigurarmi la teleferica, i lavori in corso, ma avverto il freddo della baracca, mi sembra di sentire tra le dita la crosta dura di pane che si frantuma, la mollica in bocca.
Però, dentro lo squallore e la desolazione, li vedo questi uomini silenziosi, lontani da casa, uniti da una sorta di condivisione manifestata col più antico, solidale segno di umiltà: la spartizione di un pezzo di pane.

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