Mi ero appena alzato dal letto, alle 16;00 del pomeriggio. Dalla finestra il cielo aveva una colorazione fangosa. Mentre mi stringevo fra il tepore delle coperte, ancora rintontito per l’eccesso di psicofarmaci assunti la sera prima, sento mia madre al telefono scongiurare l’arrivo di chi non so chi. Mi riaddormento, sereno.
Bussano alla porta dalla mia camera da letto riconosco la voce della mia psichiatra ed altre persone vociare di contorno. Ancora a letto, ridestato in parte, mi trovo circondato da volti gentili di professione che mi chiedono come sto e che cosa mi successe la sera prima.
Racconto, con la voce biascicata. La psichiatra alla fine della fiera mi invita a seguirla per soggiornare qualche giorno presso il reparto di psichiatria dell’ospedale della mia città. Sono confuso, mi sento braccato, non realizzo totalmente, mi duole il corpo. So che è inutile tentare di convincere una decisione già presa per la quale si sono mossi i mezzi strampalati della asl.
Temo il trattamento sanitario obbligatorio, le sue conseguenze ed allora, accetto, rabbuito in volto Inebetito mii alzo e mi preparo alla meglio,nell’indifferenza della mia povera madre, che quasi non guardo e che non sospetta gli sviluppi che ci attendono.
Raccattati pigiama , ciabatte, dentifricio, pasticche,infilo tutto in un borsone e vestito seguo il corteo fuori di casa. Entriamo tutti quanti in una vecchia panda e ci dirigiamo verso l’ospedale.
Quel che succede dopo lo ricordo con imprecisioni: mi mettono in una barella, mi infilano aghi per il prelievo del sangue,mi attaccano adesivi con sopra scritto il mio nome e poi mi sbattono di sopra di sotto, fino a quando faccio ingresso nel reparto dei matti, dove mi trovano una cameretta da dividere con un altro uomo. Guardo il soffitto e penso che sia la fine.
Non riesco a dormire la sera , nonostante l’antipasto di psicofarmaci ingoiati e allora chiedo un sonnifero, lo stesso che mi aveva ridotto allo stato catatonico la sera prima, assieme ad altri trattamenti sperimentale che più tardi vi dirò.
Nei reparti , scopersi subito, la parte più dura della giornata è la notte. Desideri dormire e non riesci. Pensi: a come uscire, ai tuoi guai, a come fare per rimediarli. Ogni rumore è un nemico.
Per fortuna ci sono le sigarette, ma per accenderle, ogni volta, devi rivolgerti ad un guardiano, che poi sarebbero infermieri, che ti allunga la fiammella ad ogni ora del giorno e della notte. I guardiano cominciano a smettere di essere tali e ridiventano infermieri il giorno della tua uscita, quando dallo stato di carcerato torni allo stato civile di uomo mentre loro dallo stato di guardiani annoiati e bruschi tornano allo stato di dipendenti pubblici, sorridenti di falsità verso i parenti.
L’inizio della mia permanenza fu terribile. Sarei rimasto 7 giorni. Una quantità tale di tempo non l’avevo mai passata fuori da casa e lontano dai miei genitori che adesso, vecchi e ammalati, mi mancavano assai di più di quand’erano giovani e sani e in qualche modo capaci di restare in piedi in un mondo mosso da venti tossici.
Dovetti abituarmi, con uno sforzo disumano. Timido, sebbene non più ragazzo, faticai a fare amicizia con gli scarti della società, miei compagni di sventura, ma col tempo entrai sempre di più nelle loro simpatie e alla fine divenni quasi un riferimento per tutti quanti per via della sensazione di serenità che trasmettevo e l’abitudine , divenuta un pregio, di ascoltare il prossimo.
Nel reparto, da mattina a sera, era una guerra continua, per ogni piccolezza. Il cibo aveva un’importanza suprema. Il rancio, nemmeno a dirlo, non lo avrebbero mangiato neanche i topi di fogna, ma quando si ha fame, tutto si impreziosisce.
In reparto c’erano due o più bulimiche con trascorsi di tossicodipendenza. Una di questa, Maria, era bassa, magrissima, con i capelli biondi tagliati di traverso. Era ricoperta di tatuaggi. Ragazza intelligente e incompresa, sprofondata inesorabilmente nel male; durante i pasti si trasformava in una belva: rovistava nei piatti di tutti e, quando la frenesia s’impossessava d lei, era capace persino di tuffarsi dentro i bidoni dell’immondizia per mangiare qualsiasi cosa commestibile.
Ovviamente poi vomitava tutto con l’aiuto delle mani, che spingeva così profondamente dentro la bocca da procurarsi ferite alle nocche. Rubava cibo a tutti, introducendosi di soppiatto nelle altrui stanze. Poi negava, ma solo all’inizio. Tornata la ragione confessava e si riprometteva di non compiere più azioni simili e anzi si riprometteva anche di imporsi una dieta. Bugie. Il giorno dopo ricominciava. Ricevetti poche visite durante il mio ricovero.
Non fu una sorpresa, sapevo bene di essere solo su questo mondo, eccettuato la mia cara mammina che una volta al giorno, non senza sacrifici, si faceva accompagnare per visitarmi e per soffrire vedendomi in quello stato, in quel posto, a quell’età che era la stessa di quando fu internato mio padre, molti anni prima, quando io ero solo un bambinetto.
Sembrava ancora più vecchia mia mamma, vista fuori dalla sua casa, dal suo ambiente. Non riusciva quasi a parlare, per dimostrarmi il suo amore e per abitudine cominciava a sistemarmi le cose maldisposte sul comodino. “ come va? Tutto bene a casa? Il babbo con chi l’hai lasciato? Hai sentito il dottore, c’è possibilità che mi mandino via presto?” “Tornerai a casa domani,me l’ha detto il dottore” Il dottore del reparto, un giovane psichiatra con il quale avevo parlato la mattina stessa non aveva di certo potuto dire quelle parole a mia madre, se non per rassicurarla, poiché con me si espresse in modo assai diverso.
Avevo ben presto compreso come si svolgevano i dialoghi con gli psichiatri. Inutile convincerli di avere riconquistato uno stato di equilibrio sufficiente a lasciare quel postaccio. Non c’era verso. Loro parlavano e tu ascoltavi. Ciò che avevi da dire non aveva la minima importanza. Il solo metodo per poter guadagnare terreno consisteva nel farsi vedere sereno e con gli occhi brillanti di gioia. Non si doveva parlare di dimissioni ma di un rinnovato benessere.
Alla fine ti promettevano, con molta vaghezza altri giorni di osservazione prima delle dimissioni. I giovani psichiatri sono timorosi di sbagliare e applicano alla lettera ciò che hanno imparato all’Università, senza dar troppo peso al paziente. Mi ero abituato a quel tram tram e oramai non mi facevo più speranze. Il mio cuore continuava a spezzarsi però per gli aiuti che non potevo più dare alla mia famiglia.
Tutto iniziò in una notte seguente il natale. Andavo in cerca di sesso, senza speranze. Il Programma che mi ero fatto era infatti, un incontro occasionale e poi il suicidio. Non c’era nessuno a battere e continuavo a girare a vuoto con la mia macchina.
Ad un certo punto, un’auto della polizia, sempre solerte nel ricercare i criminali, mi fermò, ben sapendo che cosa stessi facendo. Mi fermai e l’agente prima di chiedermi i documenti , mi guardò in faccia e mi chiese perché mi trovassi in quel posto, in quel posto a quell’ora. Era tutto scontato. “ sto facendo un giretto, prima di dormire”. Avrei potuto essere sincero e dirgli:” cerco cazzi!” Magari mi avrebbe dato il suo e quello del suo compagno…chissà. Terminato l’umiliante controllo venni rilasciato e , stanco mi diressi in un luogo abbastanza appartato dove messi in scena l’atto del mio tentato suicidio. Attaccai un tubo allo scarico della macchina e lo congiunsi al finestrino posteriore dell’auto. Il tubo era troppo grosso, ma attraverso il nastro adesivo riuscii a costruire una macchina del gas tutto sommato funzionante.
Accesi l’auto , mi sdraia e attesi la mia fine; contrariamente a quanto si dice e si legge, la morte per monossido di carbonio non è affatto veloce. Mi annoiavo ad aspettare. Per ingannare il tempo avevo pensato anche di accendere qualche sigaretta ma, ebbi paura di provocare scoppi. Vi chiederete: morto per morto? Ma io intendevo morire in modo dolce e indolore. Per farla breve, dopo circa un’ora e una bella travasata di monossido nei polmoni, scesi, strappai tutto il rudimentale meccanismo messo su alla bella e buona e feci ritorno a casa.
Gino P