“Scrivere per salvare una vita” – John Edgar Wideman


Voto: 4 stelle / 5

Quando ho saputo che il gruppo di lettura della libreria “On the road” di Montesilvano aveva scelto “Scrivere per salvare una vita” di John Edgar Wideman (Minimum Fax 2021, traduzione di Dora Di Marco) per il mese di giugno, non ho visto subito l’importanza che questo libro avrebbe avuto per me. Mi sto appassionando sempre di più alla storia afroamericana e del Movimento per i diritti civili e solo dopo un po’ ho capito che qui si parla proprio di questo.

Trama di Scrivere per salvare una vita.

Chi ha visto “The butler” innumerevoli volte come me ricorderà che uno dei motivi di rottura fra il padre e il figlio protagonisti del film è un volantino. Il volantino viene da uno dei tanti comizi che una donna afroamericana, Mamie Till, conduceva negli Stati Uniti del Sud negli anni ‘50 dopo che suo figlio Emmett, quattordicenne, era stato massacrato da alcuni ragazzi bianchi per aver guardato una ragazza e gli assassini erano stati assolti.

“Scrivere per salvare una vita” riesuma la storia dietro questa storia. Nel processo agli assassini di Emmett Till è stato sfortunatamente usato a loro favore il fatto che dieci anni prima anche il padre di Emmett, Louis, aveva subìto un processo, per di più per stupro e omicidio, ed era stato impiccato.

John Edgar Wideman ripercorre la storia di Louis Till cercando un punto debole, un indizio, non sa cosa.

Recensione

“Scrivere per salvare una vita” non è un romanzo e non è un memoir, eppure è scritto come se fosse entrambi. L’autore alterna la sua voce narrante, che riporta le ricerche passo dopo passo, a un io che si immedesima nelle persone di cui studia le vite. Il risultato è un filo unico che attraversa il tempo e che lega gli schiavi neri del 1861 alla figura di Louis Till a Mamie Till e a Wideman stesso, tutti in qualche modo schiacciati da una società che si nutre di capri espiatori.

“Perché non darsi da fare per i prigionieri vivi, mi ha chiesto mia moglie. Milioni di persone sono rinchiuse proprio in questo momento. (…) Sto cercando di trovare le parole per aiutarli. Per aiutare me stesso. Aiutare tutti noi a sopportare il peso dei duri anni passati dietro le sbarre.”

Alla fine, tanto nello scrittore quanto nel lettore resta la sensazione di un fallimento. Forse Louis Till era veramente colpevole e tutto questo non ha avuto senso. La strada percorsa insieme all’autore ha tuttavia tracciato un disegno ben riconoscibile, che è quello di una integrazione sociale ancora difficile da raggiungere pienamente. E noi restiamo con moltissimi spunti su cui riflettere.

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