«Un caffè…»
«Macchiato con latte freddo. In arrivo, Dottore»
«Un cappuccino…»
«E un cornetto alla crema. Subito Signora».
«Panino…»
«Prosciutto e mozzarella, appena riscaldato. E una birra media. Accomodati al tavolo, Mauro».
E sorriso.
Nel mio mestiere, sono le componenti fondamentali: la rapidità e il sorriso. E ancor più fondamentale è conoscere le abitudini dei clienti, prevenire i loro desideri, scambiare due chiacchiere quando ne hanno voglia. E saper trovare le parole giuste per quel momento: le parole giuste sono il ricciolo di panna nel caffè.
Ormai ho imparato, da quando sono riuscito a raggranellare i soldi per acquistare questo bar in Via Manzoni: in pieno centro, a Milano.
Il bar in cui lavoro da quando ho quindici anni: prima come ragazzo delle consegne, poi come barman. Adesso potrei starmene alla cassa a contare i dané, perché il bar va bene, molto bene. Ma che vi devo dire? Stare dietro al bancone mi piace troppo, e mi piace troppo trovare le parole giuste.
Poi, una volta al mese, ho il grande regalo: La Scala mi ha messo a disposizione una specie di circuito di diffusione interno, per cui posso trasmettere, in diretta e sullo schermo che uso per le partite di calcio, la prima rappresentazione di ogni spettacolo; una rarità, ma il sovrintendente pranza da me tutti i giorni, e la Wiener Shnitzel che gli faccio io non la trova manco all’Hotel Saker di Vienna.
Sono strane, le sere dell’Opera: i clienti chiassosi abbandonano il locale verso le 18.30, quasi in segno di rispetto per lo spettacolo che deve iniziare. La confusione dell’Happy Hour lascia spazio a un clima ovattato, fatto di un gruppo di persone – quasi sempre le stesse – che mangia la pietanza del giorno preparata appositamente, sorseggia un wisky o assaggia un dolce durante la recita, in religioso silenzio.
Come a teatro, appunto.
Il tavolo sul soppalco, quello con la vista migliore sullo schermo, è sempre riservato: all’Uomo dai capelli bianchi. Non ne conosco il nome, so solo che ha i capelli bianchi, e che porta sempre una cravatta a righe nere e azzurre sull’abito monopetto blu, perfetta per far risaltare il colore degli occhi.
Grigi, grandi, tristi.
Mangia un risotto alla milanese, una fetta di torta alla crema, e, prima dell’ultimo atto, si fa portare una spremuta d’arancia. Vai a sapere perché.
Esattamente nel momento in cui sta per calare il sipario, lascia i soldi sul tavolo e se ne va. Fino allo spettacolo successivo.
Non ci ho mai parlato, con l’Uomo dai capelli bianchi: non ha mai avuto bisogno di parole giuste da parte mia. Si concentra sul suo cibo e sulla musica, vuole silenzio e spazio per i suoi pensieri.
Ma perché non si prende una poltrona in platea? Anche qui, vai a sapere.
Non ha mai avuto bisogno di parole giuste, l’Uomo dai capelli bianchi. Fino a quella sera, fino alla sera di Don Carlo. Opera in cinque atti, Verdi maturo, Verdi complesso: il rapporto tra Chiesa e potere temporale, Trono e altare, Filippo e l’Inquisitore, ilMarchese di Posa e il suo sogno di libertà, la morte come sacrificio, la morte per l’amore.
E Eboli: quanto è bella l’aria di Eboli…La bellezza come Don Fatale che viene maledetto, Carlo da sottrarre al supplizio, un dì mi resta…. un dì mi resta…sia benedetto il Ciel, lo salverò! I rivoltosi che entrano a palazzo, e il pubblico che impazzisce. E poi, quanto è brava quel mezzosoprano dai capelli biondi e dagli occhi blu: una voce di tramonto infuocato e velluto scuro, piani morbidissimi e acuti d’acciaio.
Tutti applaudono, meno l’Uomo dai capelli bianchi. Questa volta, non chiede la spremuta, questa volta non lascia i soldi sul tavolo, questa volta rimane inchiodato alla sedia. Anche quando il circuito televisivo si spegne, e sullo schermo rimane solo il simbolo del Teatro. Anche quando gli altri clienti salutano e se ne vanno. Anche quando inizio a passare lo straccio sul bancone.
L’Uomo dai capelli bianchi rimane al suo posto. L’Uomo dai capelli bianchi sta piangendo.
Prendo due bicchieri, una bottiglia di vecchio Armagnac che dedico solo ai clienti speciali, e vado a mettermi di fronte a lui. Perché io so quanto sono importanti, le parole giuste. E so anche che, in questo caso, la parola giusta è il silenzio. Perché l’Uomo dai capelli bianchi ha una storia da raccontare. E infatti, me la racconta.
«Io ho lavorato per trent’anni, al Teatro. Nella direzione artistica. In pratica, il mio compito era scegliere i cantanti più adatti per i singoli ruoli. E cinque anni fa, proprio per Don Carlo, scelsi il mezzosoprano che ha cantato stasera. Mi aveva colpito la sua voce; mi aveva colpito la sua bellezza.
Una bellezza…pericolosa. Una bellezza maledetta. Proprio come Eboli.
La imposi, superando le resistenze del direttore che voleva affidare il ruolo ad una cantante diversa. La imposi, e feci bene e male. Feci bene, perché la voce era giusta per Eboli. Feci male,perché non avevo fatto i conti con i capricci del direttore: ogni nota veniva corretta, a ogni frase seguiva un rimprovero, ogni attacco era sbagliato, fino all’esplosione: “o lei, o io”.
Raccolsi il mezzosoprano in lacrime nel suo camerino, lei mi guardò con quei suoi occhi immensi: parlavano di dolore, di tristezza, di tenerezza. E di pericolo.
Entrai come una furia nella stanza del sovrintendente: lei era una mia scelta, lei era la mia Eboli. Se il direttore la avesse avuta vinta, avrei rassegnato le dimissioni. Pensavo che tutti quegli anni passati a girare da una platea all’altra, a scovare cantanti in giro per l’Europa, a passare notti in bianco per scrivere relazioni valessero un po’ di fiducia. Mi sbagliavo, la mia carriera finiva lì».
Altro sorso di Armagnac. Altro sguardo perso nel vuoto. Silenzio.La parola giusta.
«La mia carriera era finita, ma non mi importava. Perché dovevo recuperare lei: la sua voce di acciaio e velluto, la sua bellezza pericolosa e maledetta. La tenni con me per un mese intero, le parlai una sera dopo l’altra: le raccontai di tutti i teatri che avevo visto, di tutti i libri che avevo letto, di tutti i cantanti che avevo ascoltato. E di come un ruolo dovesse essere costruito, introiettato, vissuto. Perché cantare è soprattutto interpretare.
Milano ci scorreva intorno come un castello delle fiabe, con le sue vetrine scintillanti, le sue trattorie nascoste, il turbinio della gente che non si ferma mai. Lei non perdeva una parola, spalancando quegli occhi immensi. Dio, quante cose mi dicevano quegli occhi: quanto era bello perdersi in quegli oceani capaci di parlare.
E l’ultima sera, proprio davanti all’ingresso secondario del Teatro, trovò la forza di abbracciarmi e di appoggiare la testa sulla mia spalla. Volevo prenderla e tenerla con me. Bellezza e pericolo. La volevo, ma non potevo. Troppo vecchio io, troppo giovane lei: e con un volo da spiccare verso un successo che sentivo sicuro.
Maledizione. La mia maledizione.
Non le permisi nessun altro contatto. Solo quell’abbraccio.
E la sua domanda: “Come posso dirti grazie?”.
Sparai la prima risposta che mi veniva in mente: “Non dimenticare. Non dimenticare queste sere. Non ti dimenticare di me”.
Avevo fatto bene, ad assegnarle quel ruolo: la sua carriera riprese, decollò fino a raggiungere i livelli più alti. Eppure… i contatti si sono fatti sempre meno frequenti, i messaggi sono diminuiti, fino al silenzio totale.
Poi, è arrivata la serata di oggi. Mi sono presentato al suo hotel, con un mazzo di rose. Volevo abbracciarla di nuovo, dirle che era valsa la pena sacrificare per lei il mio lavoro, la mia esperienza, la mia credibilità. Sì, ne era valsa la pena. Mi sono presentato, ma lei mi ha dedicato solo pochi minuti: trattandomi quasi come uno sconosciuto. Non ho resistito. E alla fine, quando entrambi, esauriti i convenevoli, non sapevamo quasi più cosa dire, le ho dato un bacio sulla guancia, e le ho sussurrato: “Ti sei dimenticata, alla fine…”
E lei “Dimenticata…di cosa?”
E allora ho capito: ho capito che davvero era finito tutto, quanto quella bellezza era pericolosa. Quella bellezza era la mia maledizione: ti maledico, o mia beltà».
Gli occhi si perdono nel vuoto: ora sono asciutti. L’Uomo dai capelli bianchi ha finito le lacrime. Dalla tasca interna dell’abito tira fuori una busta bianca, con il logo di una clinica stampato sul retro.
«La settimana scorsa mi hanno diagnosticato un cancro ai polmoni. Dovrei partire per Zurigo per tentare una terapia sperimentale. Dovrei partire, ma ancora non lo so, e non so quanto mi interessa continuare a soffocare nei ricordi. So solo che volevo rivederla, volevo sentirla cantare un’ultima volta»
Un dì mi resta….
E ora come trovare le parole giuste?
Un’occhiata all’orologio. «Aspetti ancora qui un minuto. Finisca con calma il suo Armagnac. C’è un motivo se la saracinesca non è ancora stata abbassata»
Non gli tocca aspettare molto, infatti. Di lì a dieci minuti, un gruppo di una ventina di persone fa irruzione nel bar, carico della leggerezza fracassona di chi si è appena liberato da un impegno importante. È il cast del Don Carlo al gran completo, che circonda il maestoso incedere del mezzosoprano.
Occhi grandi che parlano, voce di velluto e acciaio, bellezza pericolosa e maledetta. Pur in quel turbinio di persone, parole e bicchieri, per lei è impossibile non incrociare lo sguardo con l’Uomo dai capelli bianchi.
Un lampo, o forse solo un ricordo.
Lui si alza dalla sedia su cui era rimasto incollato fino a quel momento, ruba una rosa dal vaso di fiori freschi che tengo sempre all’ingresso del soppalco; si avvicina a lei facendosi largo tra l’ammasso di braccia che la circondava, le porge la rosa con un inchino, avvolgendo il gambo nella busta dell’ospedale: “non dimenticarmi”.
Lei prende la rosa e apre la busta con mano tremante, sulle labbra il peso di una parola che non voleva uscire, negli occhi la tenerezza di troppe cose perdute. Le parole giuste, in quel caso non servivano. Basta una consapevolezza: la consapevolezza che,a quel punto non avrebbe più potuto dimenticare.
Un sorriso a lei, uno a me, fermo dietro il bancone del bar, e l’Uomo dai capelli bianchi scompare per sempre nel buio della notte milanese. È tutto finito, ma almeno ha finito liberandosi dal peso della sua bellissima maledizione.
A quel punto, le luci si possono davvero spegnere sul palcoscenico della sua storia.
Come in un’opera. Come a teatro, appunto.
Applauso, inchino.
Sipario.
Carlo Dore Jr