Vite disancorate

L’incrinatura che taglia obliquamente lo specchietto appeso al muro gli storpia il cipiglio della fronte, la piega amara della bocca. Titta cambia la posizione del viso, inclinandolo per rimetterlo a fuoco. Il vetro adesso gli rimanda anche l’espressione intensa, quel bagliore negli occhi a spillo sul volto da ragazzino dalla costituzione secca. Le mani che hanno ripreso l’andare e venire ritmico della lametta però sono grandi, callose.
Sulla soglia della baracca appare Sante, investito dalle volute azzurrognole della sigaretta, in canottiera – una sfida nella fredda serata autunnale – l’asciugamano sul braccio. E’ sempre tra gli ultimi a lavarsi: preferisce aspettare che la coda ai gabinetti in fondo alle baracche sia finita. Mentre cerca la maglia pulita dentro la valigia, schiacciata sotto la branda, lo informa:
Fuori hanno acceso il fuoco; quello nuovo dice che stasera si cuociono le castagne.

Quello nuovo è l’ultimo arrivato: anche per lui lo sferragliare del treno si era fermato lì dove i sogni riposti nel futuro, sostenuti solo dall’attesa del ritorno a casa – e magari comprarsi un pezzo di terra – sono sudore e nostalgia.
Uno dei tanti treni partiti dalle zone più disparate d’Italia che avevano riversato in quella cittadina dell’Alta Savoia gruppi di uomini con poco da spartire l’un l’altro. Impossibile ritrovare le stesse sottigliezze dentro linguaggi diversi, ognuno a masticare il proprio dialetto.

Titta rimane con la lametta sospesa in aria; stasera aveva in mente di finire la lettera alla famiglia: “Io sto bene, così spero di voi…”, a fermarlo la tentazione di un però dubbioso, schiacciante.
Se la sta rigirando tra le mani da giorni, la mente sfiancata dalla poca familiarità dinanzi alla molestia delle parole da scrivere. Più complicato maneggiare la penna che badile e cazzuola, più irto di ostacoli buttare giù parole giuste, ponderate che spingere una carriola su un asse instabile.
Cosa raccontare? Non la rabbiosa impotenza di fronte alle ire del capocantiere – solo un’oscillazione del capo davanti al profluvio di comandi secchi, sbrigativi che arrivano gratuiti – e neanche la stanchezza che spezza la schiena. Neppure che, quando arriva uno nuovo, in attesa di sistemazione può capitare di dormire capo e piedi. In ogni caso chiudi i denti e via, abbassa la testa e fai ciò che si aspettano da te.

Oggi c’era stata la prima gittata di cemento per un palazzo nuovo, uno di quelli che si accaparrano un altro quadrato di cielo, spargendo ombre sempre più lunghe attorno alle baracche, lì dove, con l’inoltrarsi della stagione, ci si impantana sul fango che stenta a seccarsi.
La parsimonia per non dissipare le risorse fa sì che si vada all’osteria solo la domenica, per contrastarne il grigio: Titta e Sante scelgono il posto in un angolo; ordinano un bicchiere di vino, non aggiungono nulla. Durante la settimana, di sera, restano in baracca: nelle mezze stagioni, quando non si crepa né dal caldo né dal freddo, non si sta neanche male.

I due ragazzi, insieme alla smania di impratichirsi del lavoro, quale eredità della loro terra, si portano dietro anche la diffidenza, s’incespicano con le parole: più facile sigillare i pensieri dentro il silenzio. Non sanno proclamare, declamare come gli altri, i siciliani ad esempio o gli abruzzesi che mettono quel lu davanti ad ogni cosa. Così si sdraiano sulle brandine, la coperta ben tesa dove adagiare il mazzo di carte, le partite a briscola, le chiacchiere tra loro a bassa voce come ad aggiungere un alone di mistero, anche se si tratta di aneddoti magri. La tristezza sembra scomparire solo quando, infilandoci un po’ di spavalderia, si discorre di donne, ma all’improvviso le parole si appannano, si spengono del tutto e si lascia lievitare la malinconia.

Vorrà dire che anche stasera la lettera resterà lì: si sta bene e così si spera...

Nello spazio antistante le baracche è stata predisposta una piccola catasta di legna con le tavole di abete deteriorate, usate come armature nel cantiere. Attorno al fuoco che inizia lentamente a prendere vigore, c’è già qualche compagno di lavoro. Parecchi si conoscono solo con il soprannome.
Un cenno della testa, senza enfasi, quasi un saluto militare, mentre le mani entrano ed escono dalle tasche per darsi un tono.
La luce sparpagliata delle fiamme illumina volti angolosi solcati da rughe, a testimonianza di gravosi anni di lavoro alle spalle, ma anche visi di ragazzi che in poco tempo hanno perso il passo dinoccolato da adolescente. L’aria pizzica; il fuoco si allarga quando la padella colma di castagne viene alzata e riabbassata, poi riprende contorni più definiti.
Qualcuno si gira per accaparrarsi sulla schiena il calore che arriva ad ondate. Mentre un pungente odore di fumo giunge alle narici, la memoria s’insinua, invadente, e gravano i pensieri. Attraverso le scintille sparate, ritornano immagini che sembrano appartenere ad un tempo remoto; invece si tratta solo della primavera scorsa: Titta rivede il fuoco dei tralci delle viti che bruciavano sulla riva, mentre si allontanava.
Niente ad addolcire una partenza, solo il mesto saluto sussurrato da sua madre, ed il fumo un pretesto per la mano sugli occhi.

La pellicola si riavvolge all’indietro; la frenesia dell’intera famiglia, una sera d’inverno: – Sprepara: c’è il panevin.
Il 5 gennaio si raduna la gente della contrada; solo qualcuno lascia che i riverberi arrivino dietro le tende di cucina scostate. Dopo il primo timido avvio, le fiamme si levano alte, accendono gli zigomi. Seguendo le piccole esplosioni, è tutto un parlare, scommettere sulla polenta pien calierao su un an da fan, affidando alle fiamme sbandierate dai capricci dell’aria la speranza che i raccolti siano generosi, le piogge giuste, la grandine clemente. Chi tace è immerso in un incantato torpore, suggestionato dalla catasta di legna, quasi un altare, mentre le fiamme paiono unire terra e cielo in una dimensione spirituale: il fuoco non solo incantesimo, ma purificazione, nutrimento.

Le fiamme vacillanti ora continuano a far riaffiorare ricordi silenziosi che sfumano uno dietro l’altro.
E’ l’immagine del fuoco acceso al centro del cortile ancor prima dell’alba, nell’attesa dell’odore potente della carne di maiale bruciata, l’attrezzatura preparata, poi nell’aia le grida della bestia che presagisce la sua fine, il norcino ed il colpo alla giugulare e, ancora, nascosto da qualche parte, un ricordo di bambino: guardare o girare la testa dall’altra parte?
E’ anche il rimpianto del paiolo sottratto al fuoco con la polenta adagiata sul tagliere da spezzare col filo.

Le castagne rigirate con colpi ben assestati ora mostrano la scorza che si apre; qualcuno inizia a sbucciarle soffiando sulle mani. Uno degli operai apre una bottiglia di vino con la speranza che la condivisione aiuti a scrollarsi di dosso le fatiche. L’ultimo arrivato insieme alle castagne ha portato anche dei dolci strani al sapore di mandorle e miele, che sanno di sentieri pietrosi, di terre brulle e ventose, terre scomode che poco ti regalano.
L’odore di fuliggine impasta tutti gli altri, anche quelli di calce e polvere di cantiere, li scombina e li confonde.
La luce delle fiamme smorzate gioca ancora a squarciare la sera polverosa in cui aleggiano tante cose non dette, ricordi comuni e diversi che tornano limpidi, ripuliti, arricchiti dalla nostalgia, dentro una strana, silenziosa solidarietà di gente disancorata, spaiata e raminga, senza parole per raccontarsi.

Più tardi Titta, allungato sulla branda, non riesce a prender sonno: tanto vale riprendere la lettera. Scrive, tira una riga, ricomincia e, all’improvviso, le parole gli vengono incontro, escono a cascata:
Io sto bene, così spero di voi, stasera abbiamo mangiato le castagne.
C’era il fuoco acceso e era come essere a casa…”

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