“Olga”

Mama – la voce al telefono mi scompiglia, adesso, come ogni volta. Ho bisogno di qualche secondo per capire che non appartiene a nessuna delle mie figlie. E’ un suono mancante di qualcosa, la doppia “m”, ma è arricchita dal privilegio inestimabile di sentirsi chiamare così anche da chi non hai voluto, generato e cresciuto.

Era arrivata anni fa, alla fine di giugno, forse la più piccola del gruppo con i suoi otto anni e mezzo di vita, secondo quanto diceva il certificato che ci era stato consegnato solo qualche giorno prima. Tra i compagni di viaggio spiccava per quelle gambette lunghe lunghe, l’ovale del viso perfetto, i capelli biondi e lisci, quasi inconsistenti quando osammo sfiorarglieli con una carezza che doveva essere il nostro benvenuto, due occhi mobili, di un azzurro incredibile che, come avremo capito entro poco, sapevano mandare anche tuoni e fulmini.
In mano una valigetta la quale – lo constatammo più tardi – conteneva solo alcuni regali e un paio di pantaloncini di ricambio.

– Ci eravamo buttati con entusiasmo in quell’avventura dopo che un conoscente ci aveva parlato dell’ospitalità da offrire ai bambini bielorussi per un periodo estivo, in uno dei cosiddetti viaggi della speranza, perché avessero l’opportunità di rafforzare un sistema immunitario alquanto compromesso, problema ancora attuale purtroppo, sebbene tanti anni siano passati dalla catastrofe di Chernobyl.
Ben motivati, non ci eravamo persi nessuna riunione indetta dall’associazione che si occupava dei contatti, dei viaggi e del soggiorno in Italia di questi bambini. Ci interessavano soprattutto i racconti e le testimonianze delle famiglie che avevano intrapreso quella strada prima di noi.
Tutti ci erano riusciti e con successo, a quanto pareva. Perché noi no?
La possibilità di scelta ci aveva fatto optare per una bambina, spinti da motivazioni esclusivamente pratiche in quanto la nostra casa con due figlie femmine avrebbe potuto offrire il necessario, dai pupazzi alle perline, perfino la cameretta dipinta di rosa.

Dopo mesi di attesa, finalmente giunse la sera di fine giugno in cui, parecchio emozionati, incontrammo quella bambina che avrebbe fatto parte per un periodo della nostra famiglia e di cui sapevamo solo il nome: Olga.

Non una parola di russo noi ovviamente, nessuna parola di italiano lei, ma essendo piccola, già all’arrivo non mostrò le ritrosie evidenti in altri bambini più grandi. Spontaneo darci la mano, afferrare la bambola, cui avevamo affidato le nostre prime speranze, accoglierla. Quest’oggetto doveva supplire alle parole che non sapevamo dire, se non quelle di benvenuto che ripassavamo da giorni, con una pronuncia senza alcun dubbio pessima. Il suo sguardo curioso, fiducioso faceva dimenticare che Olga era in piedi da ore e ore: un viaggio in treno da Gomel, la sua città, fino a Minsk, la capitale bielorussa, tempi di attesa per l’imbarco, poi l’aereo, quindi il pullman dall’aeroporto alla sede dell’associazione, finalmente la nostra auto con cui arrivare a casa.

Due parole diceva indicandoci: mama e papas. Parole che non potevamo accettare, che da subito respingemmo con forza al mittente: «No, Olga no. Mamma e papà no!»

Ogni volta che ci provava le ripetevamo i nostri nomi propri che lei, con determinata cocciutaggine, rifiutava. Chiamandoci in quel modo ci addossava una responsabilità eccessiva, non prevista: non volavamo sostituirci, neanche per un periodo temporaneo, alla sua famiglia ed agli affetti stabili. La sua ostinazione però ebbe la meglio sui nostri dinieghi: il terzo giorno, sfiniti di ripetere la stessa cosa, cedemmo.

E che mama e papas fosse!

Adesso, lo so, vorreste sentirvi dire che vivemmo da subito un’esperienza speciale, gratificante. Non fu così: già dopo poco tempo avevamo intuito che la faccenda non era semplice: le energie, quelle di Olga, si dimostravano infinite, le nostre si indebolivano, le mie, quelle del papas, delle nostre figlie e anche quelle della babushka (nonna).

Quella bambina ci annusava come fanno gli animaletti in un territorio nuovo, provava fin dove poteva arrivare. Voleva uscire, godere di tutto ciò che quell’estate poteva darle, anche di sera tardi. Di andare a letto no. La mattina si presentava vispa più che mai, in attesa di grandi cose per la nuova giornata. Di fronte ai “no”, con cui sbarravamo parte delle sue attese, non smetteva di chiedere finché non l’aveva vinta. Capitava di sentirla all’una del pomeriggio, col sole che picchiava, domandare inizialmente con un tono normale, che diventava sempre più imperioso: «Bicicletta!» La babushka le aveva insegnato ad andare in bici e noi tutti pensavamo che l’ampio cortile potesse contenere i suoi primi esperimenti. Assolutamente no: troppo invitanti le stradine vicine che intraprendeva con pericolosa velocità. Chiedendoci chi ce l’avesse fatto fare, arrancavamo per starle dietro con la paura che cadesse. No, a tutto ciò non eravamo preparati.

Quante volte la rabbia, il senso di sconfitta, furono lì lì per prendere il sopravvento! Magari davanti ai piatti lasciati sul tavolo per farci pentire di averle detto no. Oppure quando scappava per punirci e temevamo di non trovarla. Una volta, in un parco, Olga ritenne che aggrapparsi ad un albero e gridare a più non posso se ci avvicinavamo potesse rendere appieno l’idea che era in disaccordo sul fatto di rientrare. Attorno a noi gli sguardi di completa disapprovazione dei passanti – come non provare simpatia per quella bambina bellissima in balia di adulti intransigenti? – tanto da farci temere che saremo stati contattati dal “telefono azzurro”.

Il vocabolario tascabile italiano/russo che portavamo sempre appresso – per una costante connessione google traduttore mancava ancora qualche anno – non ci aiutava a spiegarle il perché di quei no ripetuti,

sfinenti per noi, eccessivi per lei.

La stanchezza, che si accumulava giorno dopo giorno, ci faceva dimenticare il fatto che Olga, piccola creatura, avesse lasciato la sua famiglia per arrivare non sapeva dove, non sapeva da chi, a otto anni!

Avremmo mai mandato noi un figlio lontano da casa, a quell’età, senza figure di riferimento, senza potersi esprimere nella sua lingua? Neanche pensarci.

Eppure Olga non piangeva mai, a modo suo si era adattata ad abitudini e ritmi nuovi, a persone che a fatica, con gesti, con parole che dovevano rappresentare intere frasi, cercavano di comunicare con lei. Dotata di un sano pragmatismo, perfettamente consapevole che quella era una vacanza, anche se ne ignorava i motivi, voleva afferrare da quei giorni tutto ciò che era possibile.

C’erano momenti in cui eravamo schierati – brutto da dire – lei contro di noi e noi contro di lei. Preferivamo rifiutare la realtà: finita quest’esperienza, sarebbe tornata nel suo casermone a Gomel. Sarebbe rimasto il ricordo dei tuffi nelle onde del mare o delle corse in bici, molto probabilmente non avrebbe addentato le albicocche, le pesche, o l’anguria dai costi proibitivi nel suo paese, avrebbe mangiato le verdure contaminate, coltivate dalla nonna che abitava in campagna, e meno male che c’erano.

Fu una lotta quella prima estate con lei, tanto che, per onor di sincerità, contavamo i giorni per la sua partenza, le ore.

Arrivò la fine di quel soggiorno per Olga che ci aveva lasciati sfiniti; perfino i miei anni di esperienza di lavoro con i bambini, con lei erano parsi vanificati.

Il giorno del ritorno in Bielorussia, giunse inaspettata la domanda che racchiudeva le sue speranze:
«Mama, papas, io Italia dopo dopo?»

Quel “dopo dopo”, spesse volte usato da noi per ritardare un’uscita, un gioco da fare insieme, un acquisto, ora lei lo usava pensando ad un futuro più lontano. In questo caso l’anno seguente.

Come non sciogliersi? Dopo tanti no, davanti a quegli occhi immensi, il sì, incondizionato, senza pensarci troppo, senza considerare le difficoltà che c’erano state. Forse solo in quel momento ci rendemmo conto che, in mezzo alle nostre lotte quotidiane, Olga aveva preso le nostre energie ma anche, completamente, il nostro cuore.

Il filo diretto mantenuto fino all’estate successiva, con le lettere o con le telefonate, metteva in secondo piano le fatiche, dava rilievo al suo atteggiamento affettuoso, alla spontaneità disarmante, rafforzava la fiducia che, se eravamo sopravvissuti un anno, ce l’avremmo fatta anche il successivo.

E l’anno dopo fu tutt’altra storia: un miracolo. Certo, le richieste c’erano: sapevamo che potevamo assecondarle o meno; in ogni caso non perduravano risentimenti, né da una parte e né dall’altra. Olga era disposta ad accettare i famosi “no”: si fidava di noi.

Sebbene la comunicazione verbale non si potesse definire fluida – verbi tassativamente all’infinito, ad esempio – parole nuove si accumulavano giorno per giorno negli scambi verbali, ma dentro gli sguardi fiduciosi che ci scambiavamo c’era tutta la ricchezza di un linguaggio che stavamo apprendendo assieme. Come la rabbia aveva alimentato tanti momenti il primo anno da ambedue le parti, ora si facevano strada altre sensazioni. I lunghi musi tramutati in sorrisi, in risate; ci capivamo e ci volevamo bene.

Olga venne in Italia per tre anni consecutivi e quando le dicemmo che era arrivata l’ultima estate perché ci forse ci eravamo resi conto che stava diventando pericoloso alimentare questo rapporto – il danno di sostituirsi alla famiglia vera sarebbe stato peggiore della cura – ma anche per ospitare un’altra bimba dandole le stesse opportunità che aveva avuto lei, fu come toglierci un braccio.

In quel momento se noi eravamo “mama” e “papas”, lei era figlia. Temporanea, ma figlia. E perderla faceva parte del piano. Dal primo momento in cui l’avevamo vista.

Quel “mama” al telefono, anche se sempre più raro, blocca il respiro per qualche secondo. Un nodo alla gola ferma le parole di fronte a questo immenso regalo della vita.

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