“Sorella, mio unico amore” – Joyce Carol Oates


Voto: 5 stelle / 5

Ho dovuto lottare contro le note (poco sensate, a mio avviso, in un libro che è un flusso di coscienza…) e contro qualche pagina di troppo.
Alla fine, però, ha vinto Mrs Oates con questo suo romanzo che ti trascina all’inferno pagina dopo pagina.

Quelle di seguito sono delle considerazioni sparse su uno dei tanti aspetti suggeriti dalla lettura del romanzo della Oates, ispirato ad una vicenda di cronaca americana realmente accaduta nel 1996 a Boulder, Colorado; ossia l’omicidio, tuttora irrisolto, di una baby reginetta di bellezza, JonBenet Ramsey, trovata brutalmente uccisa nel locale caldaia della sua abitazione. Sul nostro sito trovi anche la recensione di Scomparsa, sempre della Oates. Della stessa autrice abbiamo recensito anche “Ho fatto la spia“.

Trama di Sorella mio unico amore

Sorella, mio unico amore racconta un fatto analogo, l’uccisione di una pattinatrice prodigio di sei anni, figlia di una famiglia alto borghese del New Jersey. La voce narrante è quella di Skyler Rampike, fratellino del piccolo astro nascente Bliss, al secolo Edna Louise. Quando Skyler decide di renderci partecipe dei retroscena ha diciannove anni, ne sono passati quasi dieci dalla tragica mattina del ritrovamento. In questo suo lavoro JCO distrugge a suo modo il modello di perfetta famiglia bianca americana – quella dei sorrisi smaglianti e del mega albero di Natale in un mega soggiorno – mostrandoci l’ambizione di una madre invasata, che sottopone la figlia di sei anni a sedute di schiaritura dei capelli, di iniezioni e cure farmacologiche di dubbia natura, al controllo del comportamento a suon di psicofarmaci, di estenuanti ore di allenamento, di umiliazioni continue legate all’incontinenza notturna, l’assenza di un padre rampante e fedifrago, un fratello cresciuto all’ombra dell’ammirata campionessa del ghiaccio.

Recensione

Quello che colpisce di questo romanzo non è tanto la pseudo-ricostruzione delle dinamiche, che mi ha fatto sentire un po’ una morbosa voyeur, ma il punto di vista di un ragazzo che ha assistito alla “costruzione” di un mostro da ribalta, (per carità, una bambina atleticamente molto dotata) e alla disintegrazione della personalità di un individuo e ce lo racconta con un lunghissimo flusso di coscienza.

Betsey (la madre frustrata), Bix (il padre arrivista e vanesio) e Bliss (nome ispirato tardivamente da Gesù alla madre, che si può tradurre con “beatitudine, felicità perfetta”): 3 B, il numero perfetto, la trinità. E poi Skyler, il quarto, quello che non c’entra. Del resto il suo nome mica inizia per B di bellezza o beatitudine?

Ed è proprio Sky che smonta pezzo per pezzo la perfezione apparente della famiglia Rampike, ma lo fa da figlio ferito, emarginato, disagiato, scioccato dal trauma e dal suo sentirsi “una nota a piè di pagina” della vita familiare, lui non è all’altezza delle aspettative della sua famiglia, certo, suo padre lo avrebbe amato di più se fosse stato un campione di ginnastica, perché questi erano i pensieri del piccolo Skyler.

Copertina di "Sorella mio unico amore"Ma la predestinata Bliss in tutto questo dov’è? Appare annientata ed infelice, sembra una di quelle bambole da pettinare e vestire quando la madre ha voglia di giocare – cosa vi suggerisce la copertina?

Così la famiglia del “mulino bianco” – esempio povero/nostrano – si mostra per quello che è: una famiglia come tutte le altre, se non peggiore, anzi forse anche peggiore, che fa fremere il lettore di raccapriccio.

Più che “Pastorale americana”, Sorella, mio unico amore mi ha ricordato “American Psycho” di Bret Easton Ellis perché, nella narrazione, sono disseminate imprecisioni così dissonanti che fanno dubitare dell’attendibilità di quanto raccontato: quello che ha vissuto Sky è accaduto davvero o è frutto della sua mente disturbata, deviata dai farmaci da cui è dipendente e che ha assunto fin da piccolo per controllare le sue varie sindromi, le sue DS, le sue DDIA e tutte quelle disfunzioni di cui erano “malati” i ragazzini della società frequentata da Rampike?

Diversi aspetti mi hanno fatto pensare al film “Tonya”, il biopic sulla pattinatrice Tonya Harding, fenomeno del pattinaggio sul ghiaccio della prima metà degli anni ‘90 accusata di aver ordito un’aggressione invalidante ai danni della sua diretta rivale Nancy Karrigan, che le impedì di partecipare alle successive manifestazioni sportive. Perché l’America non voleva che fosse la Harding – tecnicamente, a detta degli esperti, superiore alle Karrigan – a rappresentarla sul podio delle Olimpiadi? Perchè la Karrigan era l’immagine impeccabile che gli Stati Uniti volevano dare di loro stessi al mondo: bella, colta, con una famiglia solida alle spalle – l’emblema della perfezione, ancora una volta. L’esatto opposto della Harding, insomma. Poi, riflettete un po’ voi come vi pare.

Queste faccende sono come i lustrini dei costumi: quando si spengono le luci, non brillano più.

Chiara Carnio

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