“Tennis” – John McPhee


Voto: 4 stelle / 5

Premessa: lavoro in un vecchio albergo che ha cambiato gestione. Nei primi giorni non trovo nulla di quello che cerco. Frugo nei mobili, setaccio i cassetti. Voglio un cavatappi? Trovo lampadine. Voglio un telecomando? Trovo un righello. Dopo un po’, tiro fuori tutto e scopro che nella vecchia area lounge c’è un piccolo Cimitero dei Libri Dimenticati. Guide di Ischia in tedesco, tascabili di Sophie Kinsella, “La Casa degli Spiriti” in lingua originale.
Poi, vedo “Tennis”. Due cose mi attirano a lui. È verde, ed è un Adelphi del 2013.
L’autore, leggo, è John McPhee. I protagonisti sono Arthur Ashe e Clark Graebner. Il primo è un giornalista, gli altri sono due tennisti. Scuoto la testa e sospiro. Non li ho mai sentiti nominare.
Non fa niente, penso, chissenefrega. Accarezzo la copertina e lo metto in borsa. Meglio a casa che qui.

Oggi, due mesi dopo, “Tennis” sa ancora di polvere e carta bagnata. Io però conosco Arthur Ashe, conosco Clark Graebner, e so anche come ha fatto il loro incontro a diventare una perla di John McPhee.

Trama di Tennis

Siamo nel 1968, a Forest Hills. Per tante ragioni spiegate all’infinito, in quell’anno fatidico è iniziata una nuova fase della modernità. Eppure, chiunque ogni tanto maneggi una racchetta e una pallina gialla, saprà dirvi subito che in quell’anno è cominciata anche un’altra Era: L’Era Open. Basta coi dilettanti. Abbasso le divisioni. Tutti possono guadagnare col tennis, tutti possono competere tra loro. Se oggi avete il diritto di scalare la stessa classifica di Federer e Nadal, è perché siamo ancora nell’Era Open.

Sul campo di Forest Hills si gioca una prestigiosa semifinale. Da una parte del campo serve Arthur Ashe, nero, freddo e quasi disinteressato. Dall’altra risponde Clark Graebner, bianco e teso come le corde della racchetta. I due non potrebbero essere più diversi, e infatti sono amici. Ashe è una sorta di nuovo Jackie Robinson, il primo giocatore nero di una lega Major americana. Un ragazzo come tanti che però colpisce niente male la pallina. La comunità lo eleva a bandiera di un’intera generazione. Lui è indeciso. Non sa cosa vuole. O meglio, non sa cos’altro volere, oltre al tennis. Graebner è un massiccio e quasi stereotipato ragazzone americano. Irascibile, conservatore, addestrato da sempre a volere il meglio. Ogni volta che sbaglia un punto getta occhiate assassine verso la moglie sugli spalti. È stata lei a dirgli di fare così. Meglio che Clark si arrabbi con lei, piuttosto che con gli altri, perché accade spesso.

Questi due personaggi, così lontani e quasi eterei nei loro bianchissimi completi, diventano presto conosciuti e familiari. Impareremo a prevedere ogni loro reazione. A immaginare, punto per punto, ogni loro contromossa. Prima ancora che due tennisti, in Arthur e Clark vedremo due ragazzi sudati, appena appena più bravi di noi.

Recensione

Tennis, o Livelli di Gioco, secondo il titolo originale, è uno spaccato semplice e geniale dell’America di fine anni ’60. L’incrocio tra due punti di vista così antitetici e così vicini, permette alla narrazione di spaziare tra racconti biografici, movimenti culturali e micidiali scambi sul campo di gioco. Le fasi dedicate alla partita scandiscono l’incedere. Dietro ogni riflessione si nasconde un lungolinea. Dopo ogni aneddoto arriva puntuale un velocissimo ace. Ancor più delle pallate forsennate che i due contendenti si scagliano addosso, a stupire sono le loro reazioni, violente, impulsive, sincere e squisitamente umane. McPhee le racconta tutte e poi ce le fa vedere. E sembrerà strano, ma dopo questo libro sarà impossibile guardare una partita senza cercare, almeno in parte, emozioni simili sul volto dei tennisti.

Tennis è un gioiellino. Ironico e veloce, profondo e concreto. Usa due ragazzi per raccontarci una semifinale, usa una semifinale per raccontarci due ragazzi. E poi usa tutto per raccontarci un mondo.
Dopo un punto, un’avventura. Dopo un set, un po’ di storia.
E via così, colpo dopo colpo, fino alla rete.

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