“Trittico contemporaneo” è un romanzo sul femminicidio che nasce dalla sceneggiatura della rappresentazione teatrale di una storia di violenza di genere, ispirata da un episodio vero di cronaca.
L’assassino, la vittima, la gente
Tre voci: l’assassino, la moglie vittima, la gente, in un dramma dei nostri giorni, “Trittico contemporaneo”, che le edizioni bolognesi Epika hanno pubblicato nella primavera 2019 (122 pagine, 11.90 euro). Un libro che nasce come sceneggiatura della rappresentazione teatrale di una storia di violenza di genere, ispirata da un episodio vero di cronaca. L’autrice, Flavia Todisco, è drammaturga, storyteller e scrittrice, al primo testo lungo dopo aver firmato numerosi racconti e raccolte.
In scena, un femminicidio della peggior specie, col sacrificio in aggiunta di tre figli innocenti, eliminati per non creare pesi, come se fossero cagnolini di cui di liberarsi prima delle vacanze. Già quel crimine sarebbe gravissimo, ma davanti ai bambini l’orrore cresce ulteriormente.
Non ci sono parole, eppure ne trovano tante i protagonisti di questa storia, violentata da una logica maschilista tanto spietata da togliere il fiato.
Monologo di un maschio delirante
“L’ho sgozzata, con un colpo secco”, dice il marito femminicida in un delirante monologo. Si esprime con autocompiacimento, come se fosse la cosa più normale del mondo ammazzare la moglie dopo averla violentata e poi andare a giocare a bowling, perché quella partita con gli amici proprio non la poteva perdere, c’era una sfida in palio contro quelli del Bar Centrale. Forse sarebbe passata anche la Cinzia e per festeggiare il successo l’avrebbe potuta “strizzare”, come altre volte.
Prima di rimettersi in ordine, ha fatto fuori i “cuccioli”, i tre bambini, nella loro cameretta, tanto ormai non avevano più la mamma e lui non intende impegnarsi per loro, spendere tanti soldi per farli crescere, magari studiare. Ci tiene alla sua libertà, per lui la seconda delle cose che contano per un uomo, dopo tanti soldi e prima della gnagna, sempre, comunque e tanta.
Una coltellata a testa sarebbe bastata, erano tanto teneri così addormentati, ma per sicurezza gliene ha inferte cinque, sei, forse di più. Problema risolto.
Ha messo qualcosa sottosopra in casa, tanto il sangue abbondante in giro sarebbe bastato a fare casino. Ha fatto sparire qualche catenina d’oro e un po’ di soldi, così si penserà alle malefatte di qualche ladro, magari degli extracomunitari. Lei li aveva stati sorpresi e prima di ucciderla l’avevano pure stuprata.
L’uxoricida, il femminicida, l’assassino dei figli, sogghigna mentre fa queste dichiarazioni al pubblico dalla scena ed ai lettori nelle pagine.
Rimorsi? Era sfatta, noiosa, “i bambini di qua, i bambini di là”, si piegava a tutte le voglie maritali senza reagire, gli diceva sempre di sì. “S’è meritata quello che ha avuto, altro che, ha dovuto farla fuori, neanche un santo avrebbe potuto resistere a quella lagna”.
La gente grida “Al mostro”
“Al mostro! Al mostro!”, la gente – tre persone qualsiasi, nella trasposizione in teatro – commenta come un coro il monologo dell’uomo e quello della donna, che lo segue. Ma “la gente” non riesce ad andare oltre il generico luogo comune orrore-dolore e la rabbiosa richiesta di una punizione esemplare. Perché l’opinione pubblica confonde la giustizia con la vendetta. È quella, che pretende dai processi. Le condanne dovrebbero rendere “occhio per occhio”, non punire semplicemente il reo, ma castigarlo severamente. M quale pena come rieducazione, espiazione e possibilità di redenzione: il cittadino medio ammette solo punizioni inclementi, il colpevole dovrebbe provare il dolore inflitto alle sue vittime (ed ai parenti delle vittime). Oggi la giustizia della gente è più vicina alla legge primitiva del taglione che a Cesare Beccaria: una sentenza di morte, altro che i valori della dottrina penale che ispirano le corti dei nostri tribunali.
E la vittima, la moglie, la donna?
Ricorda di averlo conosciuto nella stagione in cui le ragazze sognano l’amore gentile. Sembrava sincero, affettuoso, l’avevano conquistata gli atteggiamenti di quel giovanotto, le attenzioni, i fiorellini, le passeggiate i “quanto sei bella” e le carezze sui capelli o sul viso. Innamorata subito, completamente. Non si era mai sentita così speciale, amata, in ordine. Le amiche un po’ erano contente per lei un po’ invidiose, perché era tanto bello. “Con me vivrai la vita di una regina e nessuna tristezza”, aveva inciso sulla corteccia della quercia ai giardinetti e forse quella ferita inferta al tronco avrebbe dovuto metterla in allarme. Ma si sentiva troppo felice.
Le nuvole erano apparse ancora da fidanzatini. Le contestava d’essere goffa nel baciarlo, commentava apertamente le forme delle altre, la chiamava grassa per qualche chilo messo su, le dava della stupida. E lei diventava insicura, perdeva autostima, non parlava, non mangiava. Poi erano venute anche le botte. Non sapeva perché l’avesse sposata e anche lei era dubbiosa sull’altare, pensierosa per il passo che stava compiendo.
Col tempo il suo signore, il suo padrone assoluto, era peggiorato e lei si andava colpevolizzando. Lo giustificava: la puniva perché si comportava in modo impacciato, non era sexy, non era brava a letto. Le mancanze erano tutte sue, povera donna troppo semplice.
La vita era diventata un inferno quotidiano, senza via d’uscita. Ma lui una soluzione l’aveva trovata…