Un incoerente dettaglio

Fermo sulla soglia, prima di affrontare il corridoio del reparto, con la punta delle dita Vincenzo sfiora la fotografia riposta in fondo alla tasca, tessera sbrindellata di un mosaico di cui avrebbe voluto disfarsi e che invece l’aveva seguito in tutti i traslochi, era sopravvissuta agli spostamenti e al ripulisti fatto ad ogni assestamento della sua vita.
Ed ora Vincenzo spera di allentare il rovello che lo sta rendendo così vulnerabile da quando un’amica gli ha riferito di aver visto Stefano malmesso, irriconoscibile, in ospedale; da quel momento infatti, anche se abituato ad arginare i colpi imprevisti dietro una reazione stoica, non è riuscito a pensare ad altro.

Del tempo condiviso resta solo una fotografia, relegata tra le cose inutili in un cassetto; l’ha ripescata, guardata sommariamente come fa in genere con i ricordi, per portarla con sé, neanche si trattasse di un talismano, il giorno in cui ha deciso di affrontarlo.
Sta per chiedere il numero di stanza, pronunciare quel nome rifilato in un angolo della memoria, quando vede la sua sagoma in fondo al corridoio.
L’attestazione della fragilità è evidente nelle mani richiuse, incrociate sul petto, nel collo proteso in avanti come chi stia cercando qualcosa, ma pronto a ritrarsi timoroso, nella giacca penzolante che dà al corpo l’inconsistenza di uno spaventapasseri.
Ci sono volti che perdono la fisionomia, non il suo, anche se la faccia appare sgranata, ingiallita come la foto dentro la tasca: riconosce la piega asimmetrica della bocca sotto gli zigomi, due promontori che risucchiano le guance cadenti, i capelli ingrigiti e stempiati, ma con un ciuffo imbizzarrito al centro.

Lo stesso ciuffo di allora, quando il chiodo fisso erano le spedizioni punitive tra bande di ragazzetti.
Per Vincenzo, Stefano ed altri come loro dai pantaloni sformati, smessi dai fratelli, il riscatto dalla periferia. Per gli avversari, quelli del centro, quelli dalle scarpe buone e dai maglioncini fatti confezionare su misura, chissà, magari solo un modo per sovvertire la noia, un gioco diverso.
Nemici accomunati dal medesimo passatempo: passare pomeriggi interi a programmare scontri e strategie.
– Stavolta cambiamo appostamento: sarà una carneficina.
Era Stefano a promuovere nuove tattiche: Stefano, l’organizzatore, il leader, il capo indiscusso della loro banda cui Vincenzo aveva attribuito la forza dei condottieri.
Nella teoria erano episodi feroci di invasione; nella pratica non si guadagnava neanche un centimetro quadrato di territorio e, dopo qualche sassata, ognuno tornava alle proprie case. I nemici nei loro palazzoni protettivi o nelle villette con le cancellate in ferro battuto del centro. Lui, Stefano e gli altri nella parte sbagliata della città, quella con le gabbie dei conigli addossate alle case, cortili con alberi di cachi imperterriti nel fornire, anno dopo anno, frutti dimenticati a marcire, spesso con le radici coperte da vecchi copertoni o lamiere buttate, quella dalle stradine dove i gatti rincorrevano i topi.

Nel corridoio la distanza tra i due ora è un elastico teso che si sta riannodando e, nel riavvolgere Vincenzo alle radici, rischia di sbatterlo a terra.

Anche allora era finito a terra, raggomitolato, colpito da un sasso.

Tra i frammenti sbiaditi dei ricordi irrompe nitido il dolore irradiato in ogni parte del corpo; sopra di lui solo la luce liquida di un lampione e qualcuno che urla: – Via, via! Scappiamo! La voce di Stefano.
E poi, in sottofondo, la colonna sonora dell’eco di passi in fuga, da una e dall’altra parte, verso il centro e verso la periferia .
Nessuno della sua banda era tornato indietro a cercarlo. Quando, a fatica, si era rimesso in piedi, sul pantano non era rimasta solo una macchia di sangue, ma la fiducia nei confronti di un capo frantumata. Sul selciato, dal quale si era allontanato con una tristezza bruciante più della mandibola gonfia e del labbro spaccato, Vincenzo aveva abbandonato per sempre il senso di appartenenza ad un luogo dove fino a qualche istante prima pensava che tutti, per diritto di nascita, dovessero essere scagionati.
Quello sgarbo insolente, un dettaglio fuori posto in una pianificazione ardita, non aveva provocato una troncatura brusca ma, come in una fila di tessere del domino, la diffidenza si era propagata dall’uno all’altro: ognuno aveva capito che, come era finito il tempo delle battaglie, erano finiti anche i sogni vaneggianti per degli aspiranti eroi.

Forse era stato proprio per dimenticare lo sguardo sfuggente di Stefano che Vincenzo l’aveva archiviato sotto un controllo maniacale, sotterrandolo sotto pile di libri, sconfinando dalla rabbia per farla diventare ambizione e, appena era stato possibile, frapponendo tra sé e la periferia una distanza rassicurante.

Ed ora Stefano è qui, a fargli affrontare le sue disillusioni, a riportarlo al passato, quello dei sogni di gloria e del disagio.
– Sono Vincenzo…
La danza di sguardi non sembra lasciare strascichi su Stefano, che non riconosce il ragazzo con cui aveva diviso battaglie e pallonate, scenari e complicazioni di un tempo, estraniato, intento a balbettare parole incongrue.

Vincenzo gli porge quella fotografia che, al posto delle parole, potrebbe essere l’alfabeto comprensibile per aiutarlo a riordinare pezzi di vita.
Stefano passa il dito sul contorno, sullo sfondo sfumato con le mezze tinte del sole al tramonto e su un alone indistinto, forse una traccia di arcobaleno, su loro due: Vincenzo appoggiato al pozzo di un cortile con la corda che penzola, lo sguardo ammirato rivolto a Stefano, piegato all’indietro per non perdere l’equilibrio mentre, come un trofeo, regge tra le braccia un cane con le zampe incrostate di fango, un derelitto che non li abbandonava mai.
E mentre Stefano alza il viso sull’amico di un tempo, i solchi sedimentati sulla fronte paiono spianarsi; anche gli occhi, dapprima due biglie senza smalto, opache e scolorite, hanno una luce nuova, come chi abbia riacchiappato qualcosa che stava sfuggendo.

In un oscillare di parole contagiose attorno ad un mondo che solo loro conoscono, i ricordi si sgranano come fili di perle:
– E quella volta che abbiamo rubato la bobina per srotolare il filo dell’aquilone?
– Ti ricordi quando hai fatto il palo fuori del palazzo e io ho preso tutti gli ombrelli: le stecche sono diventate le frecce per gli archi…
– E le fionde per colpire il nemico, costruite con le tomaie e la vecchia camera d’aria della bicicletta…
Mentre Vincenzo sta pensando alle sue mani, rimaste a brancolare nel vuoto in un tardo pomeriggio invernale, che per tanto tempo non erano più riuscite stringere altre mani, la periferia è ancora lì davanti a loro, come una scacchiera su cui poggiare luci, odori, voci, suoni.

Probabilmente non sarà una generosa omissione, forse si tratterrà solamente di un atto d’orgoglio, ma lui a Stefano, cui la vita probabilmente non ha fatto in tempo a mostrare interamente le sue bellezze, nel tempo che gli rimane, restituirà una dimensione mitica, ripulita.

Una storia si può riscrivere o ricordare anche trascurando qualcosa.
Magari un incoerente dettaglio.

Commenti