“Una camicia perfetta”

Il camion mostra le ruote all’aria, anche la ruspa è adagiata sul fianco: indaffarate attività soppiantate da Lorenzo a favore di una corsa in bicicletta. Scelta imperiosamente dettata da Martina, la sorella, che non vuole impicci tra i piedi mentre traffica con una serie di pentole e stoviglie variopinte:
– Tu vai a lavorare, io preparo da mangiare.
I tre anni in più di Lorenzo non danno automaticamente diritto di replica di fronte alla bimba che organizza e sentenzia.

Dalla finestra, in attesa che il ferro raggiunga la giusta temperatura per affrontare il collo della camicia, Ester manda occhiate al cortile con la sabbionaia, laggiù dove i suoi figli mostrano il massimo affaccendamento nei confronti del gioco. Lo stesso affaccendamento con cui lei aggredisce l’indumento da stirare.
La camicia era stata ripescata in fondo all’armadio, nell’anta destra dove giacevano gli indumenti che Federico, il figlio maggiore, non metteva mai, rinfrescata a mano per evitare la centrifuga della lavatrice, appesa ad asciugare con una gruccia. Spruzzino per inumidire il tessuto e appretto per irrigidirlo sono lì, pronti a darle una mano.

Mentre la lucetta del ferro da stiro manda il via libera, dal cortile arriva l’impennata della bici di Lorenzo – sennò che gusto c’è? – Martina però lo rispedisce via. Al lavoro, sennò non mangia.
Già, il lavoro!
Il pomeriggio precedente Federico, con lo sguardo che frugava intorno stando attento a non incrociare il suo, aveva bofonchiato con tono noncurante:
– Ho un colloquio di lavoro.
Come dovesse dire che andava a prendere una boccata d’aria!
Lei aveva tenuto a bada un sospiro perché nulla trapelasse: né timore né speranza.
– Allora ti preparo la camicia stirata.
– Lascia stare, mamma.

Ma come lascia stare? Un colloquio di lavoro. Dopo mesi di attesa. Federico si sarebbe presentato con la solita felpa. Difficile trovare traccia di quel ragazzo che un tempo non usciva di casa se non vestito in maniera studiata: ora la trasandatezza era evidente nella maglietta scolorita che, a quanto le risultava, non toglieva neanche per andare a letto.
Ma stavolta si era intestardita.
Le maniche infilate all’estremità dell’asse, preme con forza le cuciture, schiaccia il ferro come dovesse incidere altre grinze, potesse appiattire increspature ben più profonde.
Due anni, due anni di attesa sfiancante, di vaghi terremo in considerazione, ti faremo sapere, no grazie, per ora non abbiamo bisogno, magari più avanti.

Nel frattempo, piegato sui pedali con una gobba di gatto, Lorenzo è tornato dal “lavoro”, qualcosa di vago che l’ha fatto partire, stare via, ritornare in cortile dove l’aspetta il pastone preparato da Martina, la quale sembra una di quelle venditrici che, nei corridoi dei centri commerciali, appioppano prodotti come non ci fosse sul mercato niente di meglio.

La sicurezza dei suoi figli piccoli, barriera che frantuma i pensieri, un armonioso sguazzare nel provvisorio, in una realtà vissuta senza rimpianti rivolti al passato e senza desideri proiettati al futuro.
Federico invece…
Non si contavano i curricula spediti. Spazi riempiti con eccellenti dettagli alla voce “istruzione e formazione” che si infrangevano contro la miseria di parole nel settore riservato a “esperienze lavorative”. Righe tristemente vuote pure negli spazi sottostanti: niente da inventare per “capacità e competenze organizzative o tecniche” se niente aveva potuto dimostrare.

E lui che difficilmente si sforzava di mettere insieme più di tre parole in croce, come si annientasse per evitare accuse che nessuno aveva intenzione di fargli. A tavola trangugiava ciò che trovava, salato o insipido era lo stesso; meno male che ci pensavano i fratelli ad interrompere un silenzio innaturale tra Federico e i suoi genitori. Il più delle volte ciò che si poteva contemplare di quel figlio era la schiena curva sul telefonino.
L’inutile incoraggiamento, quel ci riproverai col tempo aveva perso vigore, per smarrirsi del tutto. Eppure Ester ogni volta se ne stava lì ad aspettare chissà che cosa.
La fiducia iniziale aveva lasciato la strada ad un’inquieta apprensione, quella che guardando i giorni del calendario le faceva dire che magari, prima di arrivare al 30 del mese, qualcosa sarebbe successo. Ne aveva stracciati foglietti da allora.

Ancora un tocco alla tasca, assestato a rovescio, poi il ferro incalza di nuovo sputacchiando vapore in uno slalom tra i bottoni: perfetta deve essere.
Una camicia perfetta per rivestire un guscio vuoto che trascina la sua ombra.

Federico appare, una statua immobile nel riquadro della porta. Ester gli porge la camicia come stesse offrendo una reliquia. Lui la indossa con una delicatezza che non gli appartiene. La madre non osa chiedere nulla, non più; col tempo ci si abitua non solo ai silenzi ma anche all’impossibile.
Mentre attorciglia il filo del ferro, ascolta il franare dei passi sulle scale che si confonde con il vocio consolatorio dei piccoli in cortile.
Appena lo vedono uscire, i bambini si interrompono: l’adorazione nei confronti di quel fratello grande che, quando è di buonumore, li fa sentire importanti giocando con loro, è fatta di curiosità e di premure.

Martina lo osserva: non è abituata a vederlo vestito così.
– Facciamo che tu vai a lavorare e noi ti prepariamo da mangiare?
Federico con una mano sfiora la camicia, poi quasi sottovoce risponde:
– Sì, facciamo che vado a lavorare.

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