Videochiamata

Non c’è orario preciso: capita pure che l’annuncio della videochiamata arrivi tardi.
– Svelto, prendi le felpe!
Considerando che “tardi” sia un concetto piuttosto soggettivo, le felpe servono a coprire le magliette del pigiama, a presentarci in modo dignitoso, anche se inutile, visto che, c’è da immaginarselo, nell’arco della comunicazione il decoro andrà miseramente a scomparire.

Succede a volte che la videochiamata giunga di pomeriggio: in tal caso non esiste attività tale da non poter essere troncata di botto. Se, impazienti di rispondere, affrontiamo le scale con passo accelerato e piena disapprovazione delle ernie discali – ma abituate ad adeguarsi – siamo comunque qui, dipendenti dal telefono o dal tablet.
Anzi, per la precisione, a dipendere da un batuffolo di due anni di vita.

E’ lei, la piccola, che si prende tutta la schermata; la sorella ha solitamente faccende ben più rilevanti di cui occuparsi che fare le moine a degli strampalati nonni.
La maggiore infatti è un’apparizione evanescente che sfreccia, volteggia, rotola.
Sempre sullo sfondo.
Avvalendosi di un’esperienza maturata in ben sei anni di vita, sostiene che le sono indispensabili attività “liberatorie”. E, di fronte alla lucidità di chi riconosce, e mette in atto, ciò di cui ha bisogno, cosa c’è da aggiungere?
Se, fino a qualche mese fa, si dedicava ad un portamento armonioso con la danza classica, ultimamente ha deciso di rivoluzionare la sua vita buttandosi con vigore nel parkur.
Il parkur?! Quella roba dove metti a repentaglio l’osso del collo saltando da altitudini vertiginose?Attraverso le videochiamate però è stato possibile appurare che, perlomeno negli allenamenti in casa, lo slancio parte dal divano, a meno di un metro da terra.

La piccola quindi: nello schermo appare dapprima un cocuzzolletto di capelli in vibrazione sulla testa, dritti come un punto esclamativo, poi – cosa che ci fa trattenere il fiato – il mezzobusto rivestito di orsetti, proteso con inquietante sbilanciamento dal seggiolone, anche se l’intera struttura corporea è provvista di una solida, naturale imbottitura.
Un attimo di sospensione in cui verifica se siamo ben attenti, in un dispotismo che trova facile terreno in noi sottoposti, ed eccola pronta ad impressionare il suo pubblico dando l’avvio allo spettacolo.
Un repertorio costruito in ventiquattro mesi di via: più gesti che parole, più suoni che frasi, una spensieratezza di linguaggio che non ha scrupoli nel decapitare fonemi.
Di solito parte la domanda: –maaa? (Accreditandole, oltre al dono della sintesi, tutta la fiducia nell’essere inconsciamente provvista delle regole del vivere comune, da leggersi in tal modo: se fosse possibile, di grazia, vorrei vedere il gatto). Comunque più la vocale di maaa si allunga, più la richiesta risulta impellente.

Va precisato che, se non temporeggiamo nemmeno un istante prima di iniziare la caccia al felino, un valido motivo c’è. Avvertiamo come nostro pressante dovere porre rimedio agli effetti di inopportuni comportamenti altrui: colmare un’assenza che i genitori delle creature in questione non hanno la minima intenzione di riempire, ossia la presenza di un animale domestico in casa loro. Per carità, alla maggiore una concessione era stata fatta. Ma lei stessa aveva mollato la spugna dopo che all’asilo, in una conversazione, era stato chiesto ai bambini quale animale avessero. Di fronte a coccolosi cani, gatti o coniglietti domestici elencati dai compagni, dovendo annunciare di possedere un lombrico – anche se provvisto di opportuno vitto e agiato alloggio dentro un barattolo – aveva intuito fosse meglio lasciar perdere.
Constatata l’indifferenza genitoriale sul tema, non spetta forse ai nonni conservare, nutrire e coltivare quel seme che potrebbe far sbocciare, chissà, una futura veterinaria, una zoologa?
Ragion per cui parte fulmineo il rintracciamento del gatto: azione semplicissima se, assecondando la sua pigrizia, è acciambellato sopra qualche sedia, ma ardua se, nel momento della videochiamata, si sta prendendo la sacrosanta libertà di testare l’istinto cacciatore. Sebbene la ricerca possa essere complessa, il nostro impegno non demorde: agguantato il micio, costui viene posizionato davanti al telefono; a seguire uno tsunami di immagini, segno che, felice di un illusorio contatto, la piccola gli ha concesso una carezza dando una manata allo schermo.
Il gatto si lascia girare e rigirare: testa, coda, zampe, di schiena e di petto. Persa ogni diffidenza felina, percepisce che lo schermo è garanzia: chi lo sta scrupolosamente analizzando non è qui a constatare di persona la morbidezza del suo pelo.

L’attenzione della bimba, quindi, in un ordine di interesse ineccepibile, si rivolge a noi: con la fermezza di un gladiatore brandisce un cucchiaio di legno a mo’ di spada e ce lo punta contro invitando ad assaggiare. Assaggiare che cosa? Ma davanti ad un impasto, non importa se vero o immaginario, offerto da un bambino, bisogna mostrare non solo massima collaborazione, ma crederci, crederci assolutamente.
Non chiediamo giustificazioni per questa ludica arrendevolezza, non ne abbiamo bisogno: il nostro amm, vergognoso e puerile, non ha prezzo perché volti le spalle, ti distrai un attimo e la poesia dell’infanzia si è già dileguata, trasformata nella prosa scontrosa dell’adolescenza.
E noi vogliamo godere, ipnotizzati, della gioia del provvisorio.

A questo punto arrivano i rinforzi: il folletto parlante, quello che non ci filava e continuava a schizzare o ad avvitarsi su se stesso sullo sfondo, irrompe, sbaragliando il primo piano governato dalla sorella.
Lanciandoci occhiate a metà tra complicità e beffa, ci comunica che avrà dei segreti da raccontarci quando andremo a trovarla, distillando già aspettative, facendoci pregustare sorprese.

Prima che lo schermo si oscuri, riusciamo ad agganciare un nuovo ciao, una parola storpiata, una piroetta, facendo provvista di sensazioni. Sensazioni strane, pulsanti, intrise delle nostra consapevole regressione dentro la quale possiamo continuare a fare ooh, a chiederci il coccodrillo come fa, perplessi sulle modalità della Peppina nel preparare il caffè.
Quelle su cui imbastire i pensieri che trattengono ogni loro parola, respiro e silenzio aspettando la prossima videochiamata.

Mentre ci svestiamo dalle felpe però ci coglie un dubbio: la maggiore parlava di sorprese… Visto il coinvolgimento richiesto nel passato in cui ci invitava a provare con lei passetti di danza classica, vorrà lanciarci una sfida con il parkur?!
Un incosciente slancio di autolesionismo ci blocca; va beh, teniamoci le felpe: potrebbero attutire i colpi se iniziamo a provare qualche esercizio di nascosto.
Così, tanto per non farci trovare impreparati.

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