“Davvero un premio speciale”

Si facevano notare all’entrata, ben schierate sopra un tavolo, nel luogo dove sarebbe avvenuta la premiazione, con quel faretto messo in alto che proiettava la luce sul metallo in modo da sperdere il brillio fino agli angoli più lontani del cortile.
– E che me ne faccio di un oggetto così?
Avevi contrattato subito con tuo marito perché, per quella che ti avrebbero assegnato, un posto saltasse fuori, nel regno della sua completa giurisdizione, la cantina, magari in mezzo alle vecchie cianfrusaglie dove, visti i numerosi pezzi di vita ammucchiati, sicuramente sarebbe stato impossibile riesumarla in futuro.

Un premio letterario, qualcosa di casareccio, una serata all’insegna della leggerezza, come leggeri erano i racconti finalisti. Insomma, roba da non prendere troppo sul serio; s’intende i racconti e anche chi li aveva scritti.
L’invito ad una cerimonia del genere comunque era lusingante, dovevi ammetterlo, soprattutto per chi conduce una vita più che normale, fatta di risvegli con il caffè, di una giornata vissuta con le piccole cose, fino al ritiro ad un’ora in cui, in un’ipotetica gara sul tempo, le galline risulterebbero perdenti: insomma un risvolto alla trama di un’esistenza improntata sulle cosiddette semplici, sane abitudini.

In quella serata quindi, nell’attesa, ti eri guardata intorno, avevi buttato l’occhio al palco illuminato, ai tavoli apparecchiati. Niente da dire: suggestivo il luogo prescelto, impeccabile l’organizzazione. Tu però sapevi che mancava qualcosa.
Un cm e mezzo, non di più.
Per le donne, almeno per la maggioranza, un invito, qualsiasi invito, ha in sé il concetto di contemporaneità. Nello stesso istante in cui lo si riceve, il quesito comune è quello:
– E cosa mi metto?
Anche la frase affermativa ha una sua universalità:
– Non ho niente.
Preoccupazione immediatamente affondata da un sommesso gongolare: la prospettiva di arricchire il guardaroba. Quindi meglio darsi da fare.
Inutile negarlo: il problema della gonna si era fatto avanti subito, ma siccome su quella avevi puntato gli occhi appena messo piede nel negozio, non esistevano centimetri mancanti che potessero dissuaderti, avessero dovuto stringerti in una morsa. Sta di fatto che, con la collaborazione di due commesse, più la tua, impegnata in una respirazione trattenuta, si era chiusa. A casa ti eri data da fare con ago e filo: un gancetto in vita allentava la circonferenza (non del tuo giro vita ovviamente, ma della gonna stessa).
E via, si poteva procedere.
Fiduciosamente.

Perciò, tornando alla serata, sarebbe stato possibile, al momento opportuno, arrivare al palco senza incidenti di percorso. E così era stato: le parole del presentatore sul tuo racconto e poi il ritiro dei premi. Fra cui, appunto, uno di quegli oggetti che, con tutta la delicatezza possibile, ora stavano mettendo nelle tue mani E qui il respiro si era bloccato fornendo probabilmente inaspettato sollievo a quel gancetto pericolosamente teso.
Gli occhi puntati sull’oggetto, ti eri detta che non era possibile.
La somiglianza la stavi vedendo solo tu?
In comune con gli altri mostrava la base concava e il suo bel piedistallo, ma era l’unico con il coperchietto e, sopra, qualcosa simile ad una croce stilizzata.

Eri tornata al tuo tavolo tenendolo sotto il braccio, chiedendoti se si trattasse di una impercettibile affinità sfuggita al disegnatore della coppa, oppure se questi fosse un tipo burlone e avesse voluto divertirsi creando, con una buona dose di lungimiranza, un oggetto con doppia funzione… La risposta l’avresti avuta osservando la reazione di tuo marito: pure lui avrebbe colto quel qualcosa che avevi intravvisto tu? Sì, l’aveva guardata e riguardata; quindi non era solo un’impressione: somigliava proprio ad un’urna funeraria!
Per una situazione così paradossale una risata sarebbe stata necessaria, soprattutto liberatoria, ma te ne eri guardata bene: il motivo, sempre lo stesso.
Mentre ascoltavi le parole conclusive del presentatore che parlava di pace della serata, di premio finale, del giusto riposo della giuria dopo tanto lavoro, non potevi fare a meno di guardarla, appoggiata lì di fianco. Amichevolmente beffarda.

Sulla strada del rientro, in macchina, tuo marito aveva ritenuto di ironizzarci sopra, decretando che ora sì potevi permetterti una risata, tanto ormai il gancetto della gonna il suo dovere l’aveva svolto egregiamente. Così era partita la richiesta: in un futuro, sperava lontano, avresti potuto spartirla con lui, facendogli un pochino di spazio? E, in caso, anche una scrollatina. per suggellare un’intera vita di condivisioni? Un moto di orgoglio si era impossessato di te.
Si stava scherzando? Era il tuo premio, sì o no?
Che lui si prendesse pure pergamena e prodotti locali. Ma quella era tua, te l’eri guadagnata.

Ora è in casa, ma non in cantina; in una certa ora del giorno il metallo della coppa/urna si appropria della luce che entra dalla finestra e lo sparpaglia per la stanza. Capita che te la guardi benevolmente, con una dose di indulgenza.
Sta là a ricordarti lo strano equilibrio della vita la quale, vedi un po’, ti innalza, seppur di poco, e poi ti ridimensiona, anzi ti polverizza (e mai termine potrebbe suonare più adatto).
Visto che ha il coperchio, hai provato pure a capovolgerla: tiene.

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