Borgo antico

Affiora dal groviglio scompigliato di salici d’argento e canne di bambù sottostanti, queste ultime allargate a dismisura ora che i tronchi dritti non trovano più utilizzo per recinzioni, oppure come assi di sostegno dove i salumi rimanevano appesi ad asciugare o anche, all’occasione, per impalcature arcuate al cui centro, su un cartello sbilenco, oscillante all’aria, qualcuno aveva scritto: Viva i sposi. E’ quello che tutti chiamano “il borgo”, adagiato sulla collina a guardare il paese.

Se ci si avvicina a quel pugno di case scegliendo le irregolarità del pendio vicino al boschetto che lo circonda, lasciando alla sinistra la strada con la sua ampia oltada, che garantirebbe un passo spedito, arriva alle narici una dolciastra umidità. La fatica è ripagata: qui il sole è una carezza che arriva a tratti, screziato tra rami e foglie, forse preventivo risarcimento per ciò che si offrirà alla vista.

Appaiono cortile e case, ed eccolo il pugno allo stomaco, che arriva di botto: in questa nicchia di universo dove una volta si animava la vita, la mano dell’uomo ha saccheggiato tutto ciò che l’opera del tempo, sebbene implacabile e perseverante, non è riuscita a fare.
Di fronte ai vetri spaccati e alle erbacce minacciose protese ad invadere gli spazi domestici, la mente tenta di riacciuffare le parole di chi raccontava la quotidianità nella vita del borgo, ormai spezzettate, quasi sedimentate sotto veli di oblio.

Quelle case rosse assegnate ai mezzadri dai conti che estendevano le loro proprietà su tutto il territorio circostante erano la dimora di chi si doveva occupare delle semine, dei raccolti, del bestiame, in un’organizzazione stabilita da regole secolari: la metà di tutto, fosse la legna, il latte delle mucche, il pollame, le uova, ai nobili; la restante da dividere tra le famiglie patriarcali del borgo, una quarantina di persone. Una fatica mai placata per i contadini che, seguendo i ritmi delle stagioni, potevano fidare solamente nella clemenza delle forze della natura. D’altro canto significava però avere un tetto e la possibilità di vivere, procreare e morire senza andare a finire in qualche miniera del Belgio, aggrappati a quella terra che non possedevano ma sulla quale consumavano le loro esistenze. Per le donne l’opportunità di non allattare i figli di qualcun altro in qualche città lontana, abbandonando i propri.
Braccia di un’Italia misera, famiglie cariche di doveri, povere di diritti, in perenne stato di sudditanza rispettosa e timorosa. Uomini dalle mani callose, con l’odore greve di stalla sempre addosso, misto a quello di sudore di chi non può sprecare l’acqua del pozzo. Donne che il dì di festa si concedevano il vezzo del fazzoletto buono per andare alla messa, faticando nei campi e in casa, in un’organizzazione settimanale ineccepibile: “questa settimana a me la casa, con la polenta da fare, a te i panni da lavare al fontanel,”. E a mungere le mucche, uomini e donne, come ad ostentare una parità inesistente. Qualche sporadica, rudimentale azione riparatrice di giustizia sociale la praticavano i ragazzetti, spinti più che altro da un’arguzia burlona quando, furtivamente, portavano qualche sacco di grano sul biaver, lassù dove il fator che regolarmente veniva a contare ciò che era da portar via, non sarebbe andato a controllare.

La memoria, nel suo accelerare e rallentare, inciampa nell’inseguire i racconti sentiti, ma riporta il rumoreggiare pieno di vita in quel cortile che ora offre solo la sua silenziosa desolazione.
Sembra di vedere i bambini scorrazzare nell’aia, passando di corsa sotto lenzuola tenute tese da piegare, evitando quegli scappellotti elargiti dalle madri con la stessa tranquillità di un abbraccio. Le bambine che imparavano presto a mandare giù bocconi amari perché in una comunità numerosa non si potevano guastare rapporti di parentela, crescendo, sognavano un futuro che non si distingueva da quello delle loro madri.
E quando qualcuno, foresto, arrivava “ad opera” – gli occhi che non osavano alzarsi dalle lenzuola sulle quali correva il filo da ricamo – magari se ne innamoravano, e lì avrebbero fatto il loro pranzo di nozze con l’immancabile fisarmonica ad accompagnare la festa.

Dopo qualche anno in cui anche gli ultimi mezzadri se n’erano andati, la grande cucina dell’abitazione mezzadrile era diventata un’osteria, con quel focolare rimasto a preservare la memoria dei gesti di un tempo.

Negli anni 90 però qualcuno, forse investito da un senso di onnipotenza, aveva ritenuto che il borgo si potesse trasformare, rimuovendo i fantasmi del passato, i quali probabilmente poi si erano impegnati per vendicarsi. L’effimero momento di gloria con birreria/pizzeria/gelateria/enoteca si era dissolto, già preceduto dalla scomparsa di quella sala congressi ( chi avrebbe parlato? chi avrebbe ascoltato?) nonché dagli appartamentini da affittare per vacanze di cui ora resterà qualche pensile penzolante.

Vetrate spaccate lasciano intravvedere un bancone dove una volta c’era la stalla, trasformata in pizzeria. Lassù, nella sala congressi, al posto delle poltroncine inutilizzate, c’erano i graticci con i cavalier. A primavera una frenesia lavorativa sovvertiva il ritmo consueto dei lavori, necessitando delle braccia di tutti gli abitanti del borgo, per rifornire di foglie di gelso i bachi da seta così voraci da dover essere alimentati giorno e notte.

L’azzardo più grande però era stato convertire il grande cortile in pista da pattinaggio. Nel paese non si poteva credere che si sarebbe osato tanto: una pista di pattinaggio lì? Nessuno infatti ha mai avuto l’onore di veder pattinare anima viva su quel ghiaccio sintetico.

Proprio in quello spazio, assediato di vita, si racconta che una volta fosse giunta una carrozza, attirando frotte di bambini col moccio al naso. Nientedimeno che la contessa in visita! Vestita di bianco, l’ombrellino a ripararla dal sole.

-Parchè l’è cossì pallida?

Gnorante! Non l’è pallida, lè nobile!

E a cossa ghe serve l’ombrela , no piove mia?!

No tu capiss gnent. A deventar nobile, no?!

Quando nobiltà, nel gergo del tempo, voleva dire avere la pelle bianca, non bruciata dal sole come quella dei loro padri e delle loro madri.

A parte il boschetto di salici e bambù, ultimo baluardo di protezione, ora a circondare il borgo vigneti a perdita d’occhio, là dove si profilavano rettangoli erbosi, ordinati, separati daipalù. Eppure i vecchi lo sapevano che l’uva , sotto le fratte, non cresceva: troppa umidità. – Non è terra da vino questa – lo ripetevano sempre. Troppo a posterno. La vite ha bisogno di sole!
Se il terreno non è adatto lo si aiuta: i miracoli richiesti per i raccolti e per essere risparmiati dalla grandine con i rosari, adesso sono affidati alla chimica che dispensa pesticidi per quelle viti che crescono svogliatamente.

No, non basta la memoria dei frammenti, ascoltati magari distrattamente, a far rivivere un mondo scomparso e allora ci si affida all’immaginazione: eccola la vecchia che, con le brume della sera, chiama i bambini dalla soglia della stalla perché vadano a scaldarsi al fiato delle mucche: Vegnè tosatei che stasera ve conte quela del Barba Zucon …

Ma lo sguardo non inganna: allontanandosi da tanto squallore, tutto attorno si confondono terre senz’anima, senza riferimenti che restituiscano la storia passata di una civiltà che praticava il mestiere del contadino, ricco di abilità e sapienza; rimane un vagare nel nulla, quasi alla deriva, fino ad un orizzonte smarrito.

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  1. Annamaria Gazzarin 03/10/2021

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