Aprendo cassetti impolverati si era imbattuta in quel libro, dimenticato da decenni nella casa dei genitori, dalla sovracopertina azzurra, su cui campeggiava il volto di una bambina lentigginosa; in basso a lettere scure il titolo: “Pollyanna”.
“Una mattina di giugno miss Polly Harrington entrò di fretta nella cucina. Di solito i suoi movimenti non erano mai precipitosi; anzi, il vanto maggiore di miss Polly era quello di conservare in ogni occasione la sua calma. Oggi invece aveva davvero premura…”
Così iniziava la prima pagina sulla quale il tempo aveva lasciato il segno, accartocciandola.
Può un libro che è solo e semplicemente un racconto per bambini e di sicuro non ha la presunzione di essere un trattato di filosofia, assestare un po’ la vita, magari fornire un cambio di rotta?
Quanto doveva lei a quel libro che instillava un dubbio e poi forniva la risposta: esiste la felicità? Assolutamente sì – affermavano quelle pagine – ma devi andartela a cercare.
Non può non sorridere pensando che aveva sentito dire che esiste la sindrome di Pollyanna, una ricerca ottusa dei fatti positivi che trascura appositamente quelli spiacevoli. In pratica, non bisognerebbe rinnegare la tristezza che, scacciata maldestramente, tornerebbe più forte di prima.
Ma chi aveva pronunciato tale sentenza non aveva passato l’infanzia con quella nonna con cui trascorreva – loro due sole – tutte le estati. La nonna farciva i discorsi che faceva alla nipote con la tristezza che aveva caratterizzato gli eventi della sua vita e con i quali aveva dovuto fare i conti.
“Pollyanna” era stato regalato a lei, bambina di nove anni, da chi, emigrato dal paese per andare a cercare lavoro nella grande città, aveva pensato che forse, nella lunga estate da passare lì nella casa fra le colline, un libro potesse offrire, nelle ore assolate, una valida alternativa al posto di stare ad osservare le mosche sui vetri.
Quel libro, con quella bimbetta protagonista che non la smetteva di essere ottimista, qualunque cosa accadesse, si sarebbe rivelato essere una trapunta calda, protettiva per i tempi futuri.
Carismatica la nonna, temprata nell’affrontare i contraccolpi che si presentavano, brusca nei modi, sintetiche le sue parole durante il giorno – risparmiate per le storie della sera – poco avvezza a crogiolarsi in inutili dimostrazioni d’affetto perché tanto lei e la nipote si capivano alla perfezione. E neanche alla bambina servivano parole per dire che quella vecchia rude rappresentava la sicurezza: loro due si fidavano l’una dell’altra, erano “famiglia”.
Parlavano per quella donna i vestiti neri che, dalla seconda vedovanza, non avevano mai cambiato colore, lo stesso del fazzoletto usato come copricapo e che si toglieva solo all’ora di andare a letto. Quando c’erano però le parole vere, erano spesso cariche di dolore, quello che non l’aveva annientata, ma scalfita sì, togliendole la speranza che la vita potesse mostrare il lato buono.
Rimasta vedova la prima volta poco più che ragazza, con un marito disperso in guerra, un figlio da crescere ed una bambina morta, un secondo matrimonio, altri cinque figli, di nuovo vedova, il tutto tra un assortimento di altri dispiaceri: davvero la vita non le aveva risparmiato nulla. E la bambina trascorreva tutta l’estate con lei nell’attesa di quei racconti serali, decisamente avvincenti, ma che avevano come tema miseria e guerra, malattie e malefici.
Quell’anno però ad agosto era arrivato un regalo che l’aveva lasciata senza fiato. Il primo libro della sua vita, tutto per lei.
La mattina lo metteva sul tavolo, di fianco alla tazza sbeccata ricolma del latte appena munto e intanto sfogliava le pagine, ma non leggeva: attingeva solo dalle rare immagini le sue aspettative, risparmiando le parole per il lungo pomeriggio. Infatti, anche se l’estate stava volgendo al termine, il sole indugiava ancora a lungo nelle ore pomeridiane, come se dal lato ovest della casa avesse una prospettiva migliore e non volesse saperne di curvarsi dietro la collina.
Di sera – non c’era la luce elettrica: quella naturale bastava e avanzava per i lavori dei campi –
la luce della lampada a petrolio protetta dal vetro parafiamma che sovrastava la parte panciuta, avrebbe fatto tremolare le parole stampate. E poi mai avrebbe rinunciato alle storie della nonna. Anche perché la donna, che durante il giorno diceva lo stretto necessario, sapeva raccontare: variava la voce, quale un’ attrice esperta non poteva fare, accentuava le pause, appena prima che streghe, soldati, assassini agissero dentro destini implacabili. La bambina ascoltava col fiato sospeso nel grande letto, in una vicinanza fisica con la nonna che di giorno spariva. Erano trame potenti, altro che i “Piccoli brividi” moderni, anche perché poco restava nell’anonimato e i protagonisti portavano i nomi, più spesso i soprannomi, che in tutti i paesi vicini da più di un secolo, ricadevano da una generazione all’altra.
La mattina le ore passavano lente mentre la bambina dava svogliatamente una mano nei lavori dei campi aspettando il pomeriggio, nell’attesa di quel tempo che le apparteneva, quando finalmente poteva immergersi nel libro di Pollyanna, scavalcando i confini di casa, del prato, del bosco, per avviarsi verso un mondo sconosciuto, lontano.
A volte leggeva lì al tavolo del cortile sotto la vite con l’uva di Sant’Anna che, sbaragliando tutte le altre del vigneto attorno, presentava i suoi frutti tempestivamente, per il 26 di luglio: una mano sfogliava e l’altra ad accaparrarsi gli ultimi acini rimasti dimenticati.
Altre volte invece si appoggiava al recinto delle galline che razzolavano senza interruzione, sollevavano di scatto la testa e la giravano in un passo di danza sempre uguale.
Capitava, in certi pomeriggi, che si allontanasse dalla casa e arrivasse alla “busa”, dove il terreno creava un avvallamento, fermandosi appena prima dei grovigli di rovi che battagliavano nell’avanzata verso il prato .
Nelle giornate particolarmente calde invece si avvicinava, col suo libro, al declivio boscoso dove l’accesso al sole era fermato dai castagni e dalle acacie che, ad agosto, avevano smesso di donare i loro grappoli profumati. Fin lassù giungeva il profumo intenso dei primi ciclamini e il gorgoglio del torrentello, giù in fondo alla “ruu”, dove si arrivava facendosi strada fra i cespugli di felci e calpestando le ultime foglie secche dell’aglio orsino che aveva colonizzato il sottobosco.
Certi pomeriggi, sdraiata sull’erba, i piedi appoggiati al tronco del pero che, con la sua ombra, filtrava la luce fastidiosa, mentre leggeva dava dei morsi alle perette cadute a terra che spesso illudevano presentando la buccia intatta, ma all’interno stavano già marcendo.
Quando richiudeva il libro, via di corsa, come se il movimento l’aiutasse a dare una sistemazione alle immagini che si era creata e alle sensazioni provate.
Se Pollyanna trovava il positivo, e lo faceva scoprire agli altri anche in ciò che era poco gradito, perché lei non poteva cogliere il buono delle giornate piovose, ascoltando il picchiettare della pioggia sulle tegole del tetto, accompagnata qualche volta dal fischio del vento che si abbatteva sugli alberi del bosco? E quando il tutto cessava, prendersi la rivincita con l’odore intenso che la terra bagnata trasudava o con lo sguardo che si perdeva tra le foglie ritinteggiate di fresco dall’acqua.
Alcuni giorni succedeva che, di fronte al prato che rastrellava sbuffando pensasse che, finito quel lavoro ingrato, per un po’ di tempo l’erba non sarebbe ricresciuta.
E il percorso per andare alla rivendita del paese vicino le avrebbe regalato al ritorno il profumo del pane e qualche pezzo fragrante da sbocconcellare, ancora tiepido.
Era diventato un gioco, rigorosamente da intraprendere da sola e così sopraffaceva la noia e il ripetersi monotono delle ore, la solitudine o il senso di inadeguatezza che a volte la prendeva.
Mentre la lunga estate scivolava verso i ritmi meno aggressivi dell’autunno, contrastava il ripetersi di quei giorni tutti uguali con la ricerca del buono che le potevano offrire.
Adesso il libro dalle pagine ingiallite riporta immagini, sensazioni vivide come se non fossero trascorse tante, tante stagioni e lei si trovasse ancora lì nella casa sulla collina. Sfogliandolo, quasi accarezzandolo, l’occhio cade su una frase:
“Il gioco consiste proprio nel trovare qualcosa di cui ci si possa rallegrare in qualunque circostanza. Lo si trova sempre purché uno abbia voglia di guardarsi intorno.”
Sta pensando che da allora non ha smesso di fare quel gioco; è capitato che se lo sia scordato momentaneamente, o che si sia affannata nella ricerca ostinata di un’armonia sfuggente ma, in qualche modo, la leggerezza di Pollyanna ha lasciato la sua impronta.
Ripone il libro, non le serve ripassare: è consapevole che, in fondo, anche se è rimasto dentro un cassetto, se l’è portato sempre appresso.
Loretta Casagrande
[bs-white-space]